domenica 27 Luglio 2025

Il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha presentato Considerazioni finali in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022. Ecco il suo lungo intervento:

Bankitalia, Visco: “Sul Pnrr non c’è tempo da perdere. Sul Pil superate le attese. Per inflazione serve sforzo congiunto. Troppi i giovani ancora precari”

“Autorità, Signori Partecipanti, Signore, Signori,

l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia continua ad avere pesanti ripercussioni sull’economia mondiale e a mettere in discussione l’integrazione economica e finanziaria internazionale e l’assetto multilaterale emerso dopo la fine della Guerra fredda. Il ritorno a una situazione di tensioni e divisioni tra blocchi contrapposti di paesi rappresenta un pericolo concreto per uno sviluppo sostenibile e bilanciato di tutte le economie. Insieme con la condanna della violazione eclatante della sovranità e dell’integrità territoriale di una nazione libera è vitale perseguire con forza, nonostante tutto, la cooperazione internazionale, anche in campo economico e finanziario, e ricercare un dialogo che accolga diversità di valori tra paesi e culture, sulla base del rispetto dei principi fondamentali della convivenza pacifica.

Nell’affrontare le conseguenze della guerra in Ucraina, così come nell’uscita dalla pandemia, l’economia italiana ha mostrato una confortante capacità di reazione. I processi di ristrutturazione aziendale degli ultimi dieci anni, ancorché incompleti e differenziati tra settori e territori, hanno reso più solido il tessuto produttivo. L’accelerazione dell’accumulazione di capitale, il miglioramento della produttività dopo un lungo periodo di ristagno, il recupero della competitività internazionale sono segnali incoraggianti che vanno rafforzati, superando quei ritardi e quelle debolezze di fondo che ancora impediscono alla nostra economia di dispiegare appieno le proprie potenzialità. Dalla qualità degli interventi con cui saranno affrontate le sfide del cambiamento climatico e della transizione digitale, dal proseguimento degli sforzi di riforma avviati, dipende la nostra capacità di tornare a condizioni strutturali di sviluppo meno incerte e più equilibrate.

Lo scenario internazionale

Nel 2022 la crescita dell’economia mondiale è rimasta al di sotto del 3,5 per cento, un punto percentuale in meno di quanto ci si attendeva alla vigilia dello scoppio del conflitto; quest’anno, secondo il Fondo monetario internazionale (FMI), non raggiungerebbe il 3. L’inflazione ha sfiorato il 9 per cento a livello globale; nei paesi avanzati ha superato in media il 7 per cento, il valore più elevato da quarant’anni.

In alcune economie, in particolare negli Stati Uniti, l’accelerazione dei prezzi è stata sospinta in larga misura dall’impetuoso recupero dei consumi avviato nel 2021, mentre l’offerta era ancora frenata dalle restrizioni imposte dalla pandemia e dagli impedimenti allo scambio internazionale di materie prime e prodotti intermedi che ne erano conseguiti. In Europa, invece, l’inflazione ha trovato alimento soprattutto nei rincari dell’energia, specie quelli del gas naturale, le cui quotazioni hanno raggiunto valori senza precedenti.

Dai circa 20 euro per megawattora dei primi mesi del 2021, i prezzi del gas sono progressivamente saliti, accelerando dall’estate e superando in media i 100 euro nel dicembre di quell’anno. Il rialzo è stato la conseguenza del calo delle forniture di gas dalla Russia, attribuito a sua volta dapprima alle condizioni climatiche, poi principalmente alle pressioni politiche connesse con le controversie relative all’apertura del gasdotto Nord Stream 2. Con lo scoppio della guerra le quotazioni hanno cominciato a subire fortissime oscillazioni; hanno toccato un massimo di 350 euro nell’estate del 2022, quando tutti i paesi europei cercavano di ricostituire le scorte per assicurare un approvvigionamento minimo per l’inverno. Nella media dell’anno esse sono risultate oltre 6 volte più alte in Europa che negli Stati Uniti. Grazie a una stagione invernale mite, alla riduzione dei consumi indotta dai rincari, alle misure di risparmio varate dai governi e al conseguimento degli obiettivi di stoccaggio, i prezzi del gas sono progressivamente diminuiti, tornando al di sotto dei 30 euro.

Le previsioni di crescita dell’economia mondiale nei prossimi mesi restano incerte. Pesa il persistere del conflitto in Ucraina; vi sono dubbi circa l’intensità della ripresa dell’economia cinese, che ha fatto seguito alla rimozione, alla fine dell’anno passato, delle misure particolarmente restrittive mantenute per il contrasto alla pandemia. Con la discesa dei prezzi dell’energia, l’inflazione oggi è in flessione, in Europa come negli Stati Uniti. La componente di fondo, calcolata cioè al netto dei beni energetici e alimentari, si mantiene però elevata e si conferma, per il momento, l’intonazione restrittiva delle politiche monetarie volte a tenere sotto controllo la tendenza dei prezzi nel medio periodo. Agli effetti dell’adozione di tali politiche in modo pressoché sincronizzato in tutti i principali paesi si possono aggiungere, sul piano internazionale, rischi di instabilità del sistema finanziario.

Tali rischi si sono materializzati dallo scorso marzo con alcuni dissesti bancari negli Stati Uniti e in Svizzera; ne sono conseguiti un forte aumento della volatilità dei mercati e significative riallocazioni di portafoglio. Le tensioni sono state in larga parte riassorbite, anche grazie alla risposta decisa e tempestiva delle autorità dei paesi interessati. I rendimenti delle obbligazioni societarie nell’industria finanziaria dei paesi avanzati rimangono, tuttavia, apprezzabilmente più elevati, nel confronto con gli altri comparti, rispetto all’inizio di marzo.

Le conseguenze delle tensioni internazionali, dell’indebolimento della crescita e dell’irrigidimento delle condizioni finanziarie si fanno sentire con particolare intensità nelle economie emergenti e in via di sviluppo. Si accresce la vulnerabilità delle finanze pubbliche, già gravate dall’incremento del debito registrato a seguito della pandemia. Oggi circa un quarto dei paesi emergenti è considerato ad alto rischio dall’FMI: i differenziali di rendimento dei relativi titoli pubblici si avvicinano ormai a quelli degli emittenti in stato di insolvenza.

Anche alzando lo sguardo oltre il breve periodo, l’incertezza resta elevata. Negli ultimi decenni l’apertura commerciale e l’organizzazione delle produzioni su scala globale hanno accresciuto l’efficienza nell’allocazione dei fattori produttivi. La pandemia ha però messo in luce la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento internazionali complesse, i cui snodi critici possono provocare improvvise interruzioni nei flussi di beni intermedi. La guerra in Ucraina e la crisi energetica che ne è seguita hanno reso queste fragilità ancora più evidenti; diversi paesi, non solo avanzati, hanno intrapreso politiche per contenerle.

L’emergere di fratture nelle relazioni internazionali può avere effetti duraturi, influenzando le strategie aziendali di lungo periodo, incluse quelle di localizzazione delle produzioni. Dall’invasione dell’Ucraina, le indagini presso le imprese, non solo italiane, mostrano che è in atto una tendenza, per ora moderata, alla regionalizzazione e alla diversificazione delle catene di fornitura. Almeno in Italia, la tendenza si accentua tra le aziende più esposte verso la Cina.

Proteggere e diversificare i flussi di approvvigionamento delle materie prime e dei beni intermedi essenziali è un obiettivo legittimo anche per le politiche pubbliche, ma comporta costi e tempi di aggiustamento non trascurabili; incontra un limite nella distribuzione geografica delle risorse primarie e, almeno nel breve termine, nell’alto livello di specializzazione di alcune produzioni. Va perseguito senza mettere in discussione le fondamenta di un ordine internazionale basato su regole condivise e aperto ai movimenti di beni, servizi, capitali, persone e idee.

La sicurezza nazionale può essere tutelata evitando politiche protezionistiche generalizzate, che rafforzerebbero la tendenza all’aumento delle barriere agli scambi commerciali e agli investimenti diretti esteri emersa nell’ultimo quinquennio. Un ricorso indiscriminato a sussidi e restrizioni nel commercio internazionale volto a influenzare la localizzazione delle imprese, oltre a introdurre distorsioni nella concorrenza rischierebbe di produrre nuove tensioni, anche nei rapporti tra paesi affini per valori, istituti e politiche. In alcuni casi misure protezionistiche potrebbero persino rivelarsi controproducenti rispetto all’obiettivo di accrescere la differenziazione geografica degli approvvigionamenti.

Negli ultimi trent’anni l’apertura dei mercati ha fornito un contributo fondamentale al benessere, non solo economico, di un’ampia parte della popolazione mondiale. Il numero di persone in condizioni di povertà estrema è sceso da quasi due miliardi a meno di 700 milioni; l’incidenza della popolazione in condizione di malnutrizione si è ridotta nei paesi in via di sviluppo da oltre il 25 a meno del 15 per cento. Vi si è accompagnato un forte incremento dell’alfabetizzazione e la speranza di vita si è allungata in media di più di 10 anni.

I miglioramenti sono stati specialmente evidenti per le economie che in questo periodo si sono pienamente integrate nel commercio internazionale e nelle catene globali del valore. Alcuni paesi, principalmente dell’Africa subsahariana, dove in buona parte si concentra l’espansione demografica prevista per i prossimi decenni, ne sono invece stati toccati solo marginalmente. Negli ultimi anni l’esplodere di conflitti regionali, la maggiore frequenza dei disastri naturali e la pandemia hanno frenato i progressi.

La globalizzazione e l’innovazione tecnologica che l’ha sostenuta e accompagnata sono stati dunque una straordinaria occasione di sviluppo. Nei paesi avanzati, tuttavia, hanno determinato anche una minore stabilità delle occupazioni e, in alcuni casi, un aumento delle disuguaglianze, cui le politiche pubbliche non hanno saputo dare una risposta adeguata. All’interno di quelle ampie fasce di popolazione i cui redditi hanno stentato ad aumentare è quindi cresciuto un senso di insicurezza e di ingiustizia, accentuato – soprattutto nei paesi anglosassoni – dal continuo incremento dei redditi del segmento già largamente più ricco. Questo ha contribuito a diffondere nell’opinione pubblica atteggiamenti critici nei confronti dei processi di apertura internazionale.

Sarebbe un errore sottovalutare i benefici dell’integrazione dei mercati, in particolare in un’economia aperta come la nostra. Né si può dimenticare che le sfide che vanno oggi affrontate – dalla lotta al cambiamento climatico al contrasto delle pandemie, dalla riduzione della povertà alla gestione delle pressioni migratorie – hanno natura globale e non possono essere risolte che con azioni coordinate a tale livello. Sul piano esterno, è dunque necessario preservare il funzionamento delle istituzioni multilaterali e ridare forza alla cooperazione internazionale. Ma occorre, sul piano interno, perseguire misure economiche effettivamente in grado di migliorare il benessere di tutti i cittadini, accompagnandole con una efficace comunicazione di strumenti e obiettivi. Le politiche europee mostrano che si può rinsaldare la fiducia nei benefici dell’integrazione economica internazionale. Nei sondaggi dell’Eurobarometro, il sostegno del pubblico per il processo di integrazione del nostro continente, deterioratosi nel decennio precedente al voto sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è tornato a crescere negli anni più recenti. Questo ha riflesso anche le misure adottate per sostenere la ripresa post-pandemica e, in particolare, il programma Next Generation EU (NGEU).

La congiuntura economica e la politica monetaria nell’area dell’euro

Gli effetti del conflitto in Ucraina sull’economia dell’area dell’euro sono stati amplificati dalla forte dipendenza di molti paesi membri dalle importazioni di prodotti energetici, in particolare di gas naturale. Il loro rincaro, congiuntamente a quello dei prodotti agricoli, anch’esso in larga misura provocato dalla guerra, ha inciso sul potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle meno abbienti, e sui costi di produzione delle imprese. Guardando all’insieme del 2022, la domanda aggregata, l’attività produttiva e l’occupazione hanno però proseguito nel recupero iniziato con l’uscita dalla fase più acuta dell’emergenza pandemica e sostenuto dalle ingenti risorse stanziate dai governi nazionali e dall’Unione europea. Dall’autunno, tuttavia, l’attività nel complesso ristagna.

L’inflazione al consumo è salita all’8,4 per cento in media d’anno; ha toccato una punta del 10,6 nei dodici mesi terminanti a ottobre. Il rincaro delle materie prime si è gradualmente trasmesso ai prezzi degli altri beni e dei servizi. Oltre i tre quarti della crescita dell’indice generale dei prezzi al consumo sarebbero direttamente o indirettamente riconducibili ai rincari dell’energia e a quelli delle derrate alimentari. All’aumento dei costi di produzione hanno contribuito ritardi nell’adeguamento dell’offerta globale di beni intermedi.

L’inflazione complessiva si è attenuata dall’ultima parte del 2022 grazie al forte calo dei corsi dell’energia, scendendo al 7 per cento nella primavera di quest’anno; ma l’inflazione di fondo ha continuato a salire, collocandosi in aprile al 5,6 per cento. Questa componente comprende voci i cui prezzi vengono rivisti con minore frequenza; sta ancora rispondendo, con ritardo, ai rincari delle materie prime importate; ci si può attendere che ne rifletta nei prossimi mesi la riduzione in modo altrettanto graduale.

Nel 2022 le pressioni salariali nell’area dell’euro sono state nel complesso contenute: la crescita delle retribuzioni orarie effettive si è collocata poco al di sopra del 3,5 per cento, restando quindi nettamente inferiore all’inflazione. Di recente hanno cominciato a essere più frequenti richieste di aumenti salariali elevati, talora accompagnate da una marcata conflittualità, specialmente nei paesi dove la disoccupazione è più bassa. Grazie alla limitata presenza di meccanismi automatici di indicizzazione all’inflazione passata, alla natura una tantum di una parte significativa degli incrementi retributivi e in assenza di diffusi rialzi dei margini di profitto, il rischio di una rincorsa tra prezzi e salari fino a questo punto si è mantenuto moderato.

Secondo le proiezioni più recenti, dopo un aumento del 3,5 per cento nel 2022 l’attività economica nell’area dell’euro rallenterebbe sensibilmente nella media di quest’anno, per tornare poi a espandersi in misura più sostenuta. L’inflazione scenderebbe nel corso dei prossimi mesi, riflettendo soprattutto l’andamento dei prezzi dei beni energetici; nello scenario elaborato a marzo dalla Banca centrale europea (BCE), in corso di aggiornamento, tornerebbe al 2 per cento nella seconda metà del 2025. Il margine di incertezza resta elevato.

Coerentemente con la determinazione a riportare l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento con sufficiente rapidità, all’inizio di maggio il Consiglio direttivo della BCE ha confermato la propria azione restrittiva, sia pure limitando l’aumento dei tassi ufficiali a 25 punti base. Il tasso di interesse sui depositi detenuti dalle banche presso l’Eurosistema è salito dai valori negativi del luglio scorso al 3,25 per cento. Si è ribadito che le decisioni future continueranno a essere guidate, volta per volta, da una valutazione complessiva delle prospettive di medio periodo dell’inflazione, alla luce dei nuovi dati economici e finanziari, dell’andamento della componente di fondo e dell’intensità della trasmissione della politica monetaria all’economia.

La leva dei tassi ufficiali resta l’elemento principale per la definizione dell’orientamento della politica monetaria. Per garantire una piena coerenza con tale orientamento, si è determinata una più rapida restituzione del finanziamento a lungo termine fornito alle banche; dallo scorso marzo si è dato avvio a una riduzione, misurata e prevedibile, delle attività detenute nei portafogli di politica monetaria dell’Eurosistema.

La risposta del Consiglio direttivo all’accelerazione dei prezzi è stata pienamente in linea con il graduale evolversi della situazione e dei dati che via via si rendevano disponibili. Va ricordato che nel giugno del 2021, nonostante i rincari del gas naturale e le strozzature nell’offerta di prodotti intermedi, l’inflazione complessiva nell’area dell’euro non aveva ancora raggiunto il 2 per cento; quella di fondo era inferiore all’1 per cento. Nello stesso periodo l’inflazione si collocava attorno al 5 per cento negli Stati Uniti, in larga parte per la ripresa della domanda connessa con il forte stimolo impresso dal bilancio pubblico. Neppure i mercati segnalavano attese di una prolungata accelerazione dei prezzi: nell’area dell’euro quelle a due anni derivate dai contratti connessi con il rischio d’inflazione (inflation-linked swaps) erano pari all’1,5 per cento, contro un valore quasi doppio negli Stati Uniti.

L’incremento successivo dell’inflazione nell’area dell’euro, straordinario e in gran parte imprevisto, è dipeso soprattutto dal balzo altrettanto eccezionale dei prezzi dell’energia. Gli ampi errori di previsione degli esperti della BCE e dell’Eurosistema, così come di pressoché tutti gli analisti, sono stati dovuti in massima parte alla sottovalutazione generale degli effetti dell’evoluzione geopolitica. Ancora alla fine del 2021, quando annunciammo l’avvio del processo di normalizzazione monetaria, che si riflesse subito in un netto rialzo dei tassi di interesse a lungo termine, le quotazioni di mercato continuavano a segnalare l’attesa di un deciso calo dei prezzi del gas.

L’aggressione russa all’Ucraina ha trasformato uno shock temporaneo sui prezzi in un fenomeno ben più intenso e persistente. Nonostante tutte le incertezze connesse con il conflitto, la normalizzazione monetaria è stata rapida. Si è anticipata alla fine del mese di giugno la conclusione degli acquisti netti di attività finanziarie. Subito dopo si è dato inizio a un risoluto processo di innalzamento dei tassi ufficiali, dai livelli molto accomodanti cui erano stati portati negli anni precedenti per contrastare, con successo, il rischio di deflazione. Per assicurare che la trasmissione della politica monetaria avvenga nella maniera più omogenea possibile tra i paesi dell’area, si è deciso di reinvestire con flessibilità i titoli acquistati nell’ambito del programma per l’emergenza pandemica ed è stato introdotto un nuovo strumento di mitigazione dei rischi di frammentazione delle condizioni finanziarie (Transmission Protection Instrument, TPI).

I rendimenti di mercato si sono rapidamente adeguati al mutato orientamento della politica monetaria. Dall’avvio del processo di normalizzazione i tassi di interesse privi di rischio a un anno sono saliti da livelli di poco negativi all’attuale 3,7 per cento, quelli a dieci anni da valori appena positivi al 2,9 per cento. L’efficacia dell’azione del Consiglio direttivo trova riscontro nell’evoluzione delle aspettative d’inflazione, un’ancora importante per le decisioni delle imprese sui prezzi e per la dinamica delle retribuzioni. Sull’orizzonte a dodici mesi, dopo aver quasi toccato il 9 per cento a fine agosto 2022, le attese dei mercati si collocano oggi poco al di sotto del 3; segnali di un calo delle aspettative emergono anche dalle indagini condotte presso le imprese e le famiglie. Le attese a più lungo termine, una misura della credibilità dell’azione della banca centrale, si mantengono in linea con la definizione di stabilità dei prezzi, mentre il rischio che l’inflazione resti troppo a lungo superiore all’obiettivo si è decisamente ridimensionato rispetto al picco della metà del 2022.

L’inasprimento monetario incide anche sulla dinamica del credito. Il costo dei finanziamenti bancari è in netta risalita; le indagini condotte presso gli intermediari e le imprese indicano una forte riduzione della domanda e condizioni di accesso al credito decisamente più restrittive. La crescita dei prestiti alle società non finanziarie nell’area dell’euro, salita quasi fino al 13 per cento (in ragione annua) nei tre mesi terminanti ad agosto 2022, si è recentemente arrestata; pur se in misura meno marcata, l’indebolimento riguarda anche i prestiti alle famiglie. Sebbene questi andamenti siano una conseguenza necessaria della normalizzazione monetaria, occorre prestare attenzione a che l’intensità della sua trasmissione non dia luogo a una frenata eccessiva dei consumi e degli investimenti.

La sfida è impegnativa. Di fronte al violento shock determinato dai rincari energetici, è necessario ricercare un equilibrio tra il rischio di una restrizione insufficiente, che potrebbe portare a un radicamento della dinamica inflazionistica nelle aspettative e nei processi di determinazione dei redditi nominali, e quello di un inasprimento sproporzionato, che potrebbe ripercuotersi troppo intensamente sull’attività economica, e avere riflessi negativi sulla stabilità finanziaria e, in ultima analisi, sulla stessa stabilità dei prezzi nel medio termine.

L’orientamento della politica monetaria deve continuare a essere definito in modo da garantire un rientro progressivo, ma non lento, dell’inflazione verso l’obiettivo. Il ritmo e la portata dell’aggiustamento delle condizioni monetarie sono già stati senza precedenti, così come lo erano state le pressioni deflazionistiche degli anni passati e i rischi connessi con la pandemia, che ci avevano spinto a condurre, e poi mantenere, i tassi ufficiali su livelli negativi. L’impatto delle nostre decisioni sull’economia e sui prezzi dovrebbe manifestarsi pienamente nei prossimi mesi; dopo aver portato i tassi di riferimento in territorio restrittivo, occorre ora procedere con la necessaria gradualità.

Come ho più volte osservato, il rincaro dei beni energetici è nei fatti una tassa ineludibile per l’economia dell’area dell’euro. Il ritorno dell’inflazione su livelli in linea con l’obiettivo sarà più rapido e meno costoso se tutti – imprese, lavoratori e governi – contribuiranno a questo fine, rafforzando l’efficacia dell’indispensabile ancorché equilibrata normalizzazione monetaria. Le strategie di prezzo delle imprese giocheranno un ruolo fondamentale: simmetricamente a quanto avvenuto nella fase di rialzo dei corsi dell’energia del 2022, le recenti riduzioni di costo dovrebbero ora essere trasmesse ai prezzi dei beni e dei servizi.

Nelle contrattazioni nel mercato del lavoro va evitato un approccio puramente retrospettivo, poiché una dinamica retributiva che replicasse quella dell’inflazione passata non potrebbe che tradursi in una vana rincorsa tra prezzi e salari. Quello che occorre per un recupero del potere d’acquisto è una crescita più sostenuta della produttività. Eventuali misure di bilancio dovranno rimanere temporanee e mirate; è bene che gli interventi si chiudano tempestivamente quando non più indispensabili, sia perché il ritorno all’obiettivo della stabilità dei prezzi sarebbe più difficile in caso di trasferimenti pubblici eccessivi, sia per non contrastare il necessario passaggio a fonti di energia rinnovabile.

 

L’architettura dell’Unione economica e monetaria

Gli ultimi anni sono stati di grande rilievo per le prospettive dell’Unione europea. Soprattutto, si è messa in luce l’importanza di poter contare, oltre che sulla politica monetaria unica, sull’azione di una vera e propria politica economica comune. Per portare a termine il cammino avviato con l’adozione dell’euro sono però necessari altri sostanziali progressi.

Negli anni difficili della crisi dei debiti sovrani, l’incompletezza dell’unione monetaria e una governance economica inadeguata avevano alimentato una diffusa sfiducia nel futuro dell’euro. Quelle difficoltà diedero impulso al dibattito sulla necessità di muovere verso una maggiore integrazione. Le importanti riforme allora delineate, e in alcuni casi avviate, hanno però perso slancio: l’unione bancaria rimane incompleta; quella dei mercati dei capitali è ancora in una fase preliminare; non sono stati compiuti progressi per giungere a una vera e propria unione di bilancio.

Solo con le più recenti, gravi, emergenze si sono superati in modo deciso dubbi ed esitazioni. La risposta delle politiche europee alla crisi pandemica è stata forte e tempestiva. Oltre agli imponenti sforzi coordinati compiuti per il contenimento della circolazione del virus e per l’acquisto e la distribuzione tra paesi dei vaccini, anche sul piano strettamente economico l’Unione europea si è avvalsa di strumenti innovativi: sono stati concessi prestiti ai paesi membri per finanziare misure di contrasto ai rischi di disoccupazione; con la definizione del programma NGEU sono state messe a disposizione dei bilanci nazionali ingenti risorse volte a finanziare investimenti e riforme per sostenere la ripresa economica e per la doppia transizione, verde e digitale. Anche alla crisi energetica si è risposto in modo coeso, prevedendo tra l’altro di integrare nei piani nazionali definiti nell’ambito del programma NGEU quelli di REPowerEU volti a ridurre la dipendenza energetica dalla Russia.

Questi interventi hanno un grande rilievo non solo per la loro notevole dimensione, ma soprattutto perché testimoniano la capacità delle istituzioni e degli Stati dell’Unione europea di assumere responsabilità condivise per affrontare sfide comuni, in primo luogo nell’interesse delle generazioni future. Pur avendo effetti intrinsecamente strutturali, essi sono tuttavia per lo più di natura temporanea.

Se le misure nazionali finanziate con questi programmi avranno successo, potranno costituire i primi passi nella direzione di un’unione economica pienamente integrata. I paesi che beneficiano maggiormente di queste risorse – il nostro in primo luogo – oltre ad avere un’occasione storica per affrontare problemi di lunga durata, hanno anche l’onere di dimostrare, con risultati tangibili, l’effettiva utilità di una tale maggiore integrazione.

Allo stesso tempo, però, occorre essere consapevoli che il completamento del progetto europeo richiede il superamento di ostacoli significativi di natura istituzionale e politica. Condizione essenziale è un impegno rinnovato e convinto da parte di tutti gli Stati membri a ricercare soluzioni comuni a problemi comuni. È necessario accrescere, e per talune questioni ripristinare, la fiducia tra i cittadini europei; mantenere vivo e costruttivo il dialogo a livello politico; ridurre la diffidenza che da più parti sembra nutrirsi nei confronti delle istituzioni europee.

Per quanto riguarda le politiche di bilancio, la riforma dovrebbe basarsi su due pilastri fondamentali: il ripensamento delle regole e la costituzione di un’effettiva capacità di bilancio a fronte di risorse proprie e, quando necessario, con emissione di debito. Sul primo aspetto si è compiuto un significativo passo in avanti con la presentazione, in aprile, della proposta di riforma della Commissione europea. La direzione prospettata è giusta. Si pone l’accento sulla sostenibilità dei conti pubblici nel medio termine e sulla crescita economica di lungo periodo; si riduce la complessità delle regole; le si rendono più credibili facendo leva sul coinvolgimento delle autorità nazionali nella definizione del percorso di aggiustamento.

La proposta della Commissione potrebbe non soddisfare le aspettative di tutti i paesi membri, anche per ragioni tra loro diverse. È necessaria la buona volontà di tutti per trovare una soluzione utile e condivisa. Le regole devono essere applicate in un mondo caratterizzato da fitte interdipendenze e da shock inattesi, nel quale i conti pubblici nazionali non possono essere valutati indipendentemente dal contesto. Ma il rispetto delle regole di bilancio e la loro credibilità sono nell’interesse non solo dell’Unione nel suo complesso, bensì anche di ciascuno degli Stati che ne fanno parte. Sono cruciali per l’Italia, che non può che mirare a ridurre, nel tempo, un debito pubblico troppo elevato; sono coerenti con la disciplina di bilancio riconosciuta come necessaria dalla nostra Costituzione.

L’introduzione di una capacità di bilancio sovranazionale, assente nella proposta di riforma della Commissione, consentirebbe di gestire in modo più efficiente sia shock che colpiscono singoli paesi, sia eventi avversi comuni a tutti, come la pandemia e la crisi energetica. Se gli ostacoli di ordine istituzionale e di natura politica che oggi si incontrano rendono difficile realizzare nell’immediato una piena unione di bilancio, si può procedere in modo pragmatico, prendendo spunto dagli strumenti varati durante l’emergenza pandemica: ad esempio, progettando forme di finanziamento comune degli stabilizzatori automatici, come è già avvenuto con il programma di prestiti per le misure di contrasto ai rischi di disoccupazione. Per garantire che alcuni “beni pubblici” europei – come ad esempio quelli che si collocano nell’ambito del digitale e dell’energia, dell’ambiente e della sicurezza – siano forniti in quantità adeguata, si può pensare a strumenti con caratteristiche simili a quelle del programma NGEU.

Gli shock che hanno colpito l’economia europea hanno lasciato una eredità pesante in termini di debiti pubblici. Bisogna evitare che questi ultimi divengano causa di nuove crisi. Differenziali ampi e duraturi tra i rendimenti dei titoli dei diversi Stati dell’Unione ostacolano la convergenza economica. Ricordando le numerose proposte avanzate negli ultimi anni, la gestione a livello europeo di una parte delle passività già emesse da ciascuno Stato membro, con adeguati presidi per evitare sistematici trasferimenti di risorse tra paesi, darebbe maggiore stabilità all’unione monetaria.

Come suggerito in diverse occasioni, un titolo di debito pubblico comune, da emettere a fronte della capacità di bilancio europea o determinato dalla condivisione di parte delle passività nazionali, potrebbe inoltre svolgere il ruolo di safe asset, assegnato ai titoli di Stato nelle altre principali economie, e sostenere gli interventi volti a dare concretezza al disegno di unione dei mercati dei capitali. Su quest’ultimo fronte, le proposte avanzate dalla Commissione alla fine dello scorso anno e le discussioni in corso – in tema di diritto fallimentare, di quotazione delle imprese, in particolare di piccola dimensione, di mercati finanziari e di controparti centrali – vanno nella giusta direzione. Ma occorre proseguire speditamente, per far sì che il mercato europeo dei capitali possa meglio contribuire all’impegno economico necessario per affrontare con successo la sfida climatica e quella dell’innovazione digitale, in un contesto di rafforzata stabilità finanziaria.

Non si può non sottolineare infine la necessità di portare a compimento l’unione bancaria, attraverso una revisione dell’attuale disciplina di gestione delle crisi, che renda quest’ultima più rapida ed efficace, nonché l’istituzione di uno schema unico di garanzia dei depositi. I recenti fenomeni di instabilità osservati al di fuori dell’Unione europea mostrano chiaramente l’importanza di raggiungere questi obiettivi. Non appena sarà pienamente operativa la sua riforma, il Meccanismo europeo di stabilità – grazie alle risorse delle quali dispone – potrà svolgere un ruolo importante, fornendo una rete di sicurezza finanziaria (backstop) al Fondo di risoluzione unico.

La stabilità del settore finanziario

Gli episodi di crisi occorsi negli Stati Uniti e in Svizzera ci ricordano che le banche svolgono un’attività intrinsecamente rischiosa e che non è possibile azzerare la probabilità che si verifichino casi di dissesto. Il compito delle istituzioni e delle autorità di vigilanza è di ridurre al minimo tale probabilità, definendo regole e intervenendo con presidi preventivi. Nella gestione delle crisi è cruciale disporre di strumenti idonei per contenere gli effetti e i costi per la società ed evitare che eventi isolati assumano una dimensione sistemica, con conseguenze sulle prospettive di sviluppo economico e sociale.

Nel comparto delle banche regionali statunitensi sono stati colpiti intermediari i cui modelli di business presentavano chiari elementi di vulnerabilità, con un’eccessiva esposizione al rischio di rialzo dei tassi di interesse e una provvista molto concentrata e sbilanciata verso depositi a vista di elevato ammontare e, quindi, non assicurati. Nelle crisi ha svolto un ruolo determinante una governance aziendale inadeguata. Vi hanno probabilmente contribuito la limitata applicazione degli standard regolamentari internazionali a banche ritenute non sistemiche, carenze nell’attività di supervisione, nonché la rapidità con cui si sono diffusi i timori sulla solvibilità degli intermediari per mezzo dei canali digitali e la facilità con cui le nuove tecnologie consentono ai depositanti di trasferire fondi.

Nel sistema bancario dell’Unione europea, anche grazie a una regolamentazione più stringente e a un’attività di supervisione attenta alla sostenibilità dei modelli operativi, non emergono segnali di situazioni analoghe a quelle statunitensi. Ma gli episodi di turbolenza sui mercati ci ricordano quanto velocemente la fiducia degli investitori possa deteriorarsi e come, di conseguenza, i rischi per la stabilità finanziaria non vadano mai sottovalutati; rafforzano l’esigenza di una conduzione della politica monetaria prudente e saldamente ancorata all’evoluzione dei dati.

In Italia, così come negli altri paesi dell’area dell’euro, non si sono registrati deflussi anomali di depositi. Dal luglio dello scorso anno, quando aveva toccato il picco di quasi 1.620 miliardi, questa forma di provvista è diminuita del 6 per cento; il calo riflette la fisiologica riduzione della liquidità accumulata durante la pandemia e la ricerca da parte della clientela di forme di investimento più remunerative, in grado di proteggere meglio i risparmi dall’inflazione. La flessione dei depositi ha avuto riflessi contenuti sugli indicatori di copertura della liquidità e di stabilità della raccolta, che si mantengono ben al di sopra dei minimi regolamentari.

Il rialzo dei tassi di interesse ha comportato un calo del valore dei titoli in portafoglio. Le minusvalenze su quelli che le banche intendono detenere fino alla loro naturale scadenza (valutati in bilancio al costo di acquisto), il cui impatto medio sul coefficiente di capitale di migliore qualità è stimabile in 200 punti base, si realizzerebbero solo se gli intermediari fossero costretti a venderli in anticipo. Meno del 2 per cento di queste potenziali perdite fa oggi capo a banche con un coefficiente di copertura della liquidità relativamente basso. Il meccanismo articolato che nell’area dell’euro regola il ricorso al prestito della banca centrale assistito da garanzie contribuisce, in generale, a ridurre la probabilità che gli intermediari debbano liquidare anticipatamente i titoli in portafoglio.

Nel suo insieme, il sistema bancario si trova in condizioni sufficientemente buone. Lo scorso anno tutti i principali indicatori di bilancio si sono collocati su valori nell’aggregato soddisfacenti; in più casi sono migliorati. L’incidenza dello stock di crediti deteriorati si è mantenuta stabile, su valori modesti e ormai in linea con la media europea. La redditività, a lungo depressa dai bassi tassi di interesse e dalle elevate perdite sui prestiti, è salita in misura significativa, beneficiando dell’aumento del margine di interesse. È lievemente migliorata anche la posizione patrimoniale.

Ma l’incertezza sulle prospettive economiche richiede prudenza. C’è da attendersi che il rallentamento ciclico e le più restrittive condizioni di finanziamento determinino un peggioramento della qualità del credito, con implicazioni sulle rettifiche di valore, al momento ancora basse. L’adeguamento dei tassi di interesse corrisposti alla clientela comporterà un aumento dell’onere della raccolta. Vi contribuirà una ricomposizione della provvista verso forme più costose, sia per il progressivo venire a scadenza della terza serie delle operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, sia per la necessità di adeguarsi ai requisiti previsti dalle norme sulla risoluzione.

La stabilità del sistema bancario italiano è il risultato di un intenso processo, realizzato negli ultimi dieci anni, di risanamento dei bilanci, di miglioramento dell’efficienza, di rafforzamento del governo societario e dei controlli interni; un risultato che molti osservatori, anche autorevoli, dubitavano potesse essere raggiunto. Il percorso non è stato privo di difficoltà. In non pochi casi l’attuazione di interventi tempestivi ha consentito di gestire situazioni di fragilità attraverso aggregazioni con altri intermediari più robusti, cambiamenti degli assetti proprietari, profonde revisioni e trasformazioni dei modelli di business. In altri, alcuni dei quali riconducibili anche a episodi di mala gestio, è stato inevitabile il ricorso a procedure di risoluzione o di liquidazione con cessione di attività e passività (che hanno interessato il 3 per cento del totale degli attivi del sistema). In nessun caso, nonostante i vincoli posti dal quadro normativo europeo sui quali ci siamo espressi in passato, è stata messa a repentaglio la stabilità finanziaria. I depositanti sono stati tutelati. Laddove necessario si è fatto ricorso a risorse pubbliche, il cui ammontare complessivo è stato tuttavia decisamente basso nel confronto internazionale.

Ciò non toglie che permangano casi di debolezza e vulnerabilità. Nel confronto con gli intermediari maggiori, gli indicatori delle banche meno significative non sono sempre altrettanto favorevoli. Le ragioni sono molteplici, dai vincoli che possono derivare dalla piccola dimensione a sistemi di governo societario a volte inadeguati. Anche per far fronte a questi elementi di debolezza sono state varate nel corso del tempo importanti riforme riguardanti le banche popolari e quelle di credito cooperativo; negli ultimi anni abbiamo tra l’altro considerevolmente innalzato i requisiti di capitale cosiddetti di “secondo pilastro” richiesti dall’autorità di vigilanza in aggiunta ai minimi regolamentari.

Siamo ora concentrati sull’esame della sostenibilità dei modelli di business e sui relativi rischi, tenendo anche conto degli effetti dell’innovazione tecnologica sul sistema finanziario. Continua a rimanere centrale la valutazione degli assetti di governo societario, nel presupposto che la buona qualità degli organi sociali e degli esponenti aziendali costituisce il principale presidio per una sana e prudente gestione.

Per essere efficace, l’azione di supervisione necessita di un quadro regolamentare robusto e pienamente allineato ai più rigorosi standard internazionali. Alla fine del 2021 la Commissione europea ha pubblicato la proposta di recepimento dei più recenti accordi di Basilea, portando a compimento un percorso di revisione regolamentare avviato oltre dieci anni fa. I negoziati tra il Consiglio e il Parlamento europeo sono in corso; è importante che le nuove regole siano rapidamente definite e rese pienamente applicabili.

In prospettiva, l’esperienza delle crisi bancarie degli ultimi mesi andrà sfruttata per riflettere su possibili aggiustamenti al quadro delle regole prudenziali. Si discute in particolare del perimetro di applicazione degli standard che al momento sono destinati, in linea di principio, solo alle banche cosiddette attive a livello internazionale, benché nell’Unione europea essi siano stati estesi agli istituti minori. Andrà meglio definito il concetto di intermediari sistemici: gli episodi recenti mostrano che anche le crisi di banche di media dimensione operanti a livello regionale possono determinare fenomeni di contagio e generare significative turbolenze sui mercati finanziari, non solo a livello nazionale. Sono inoltre argomento di riflessione possibili interventi sulla calibrazione dei requisiti di liquidità, anche per tenere conto della maggiore facilità con cui i depositi possono essere trasferiti grazie alla digitalizzazione della finanza, nonché sul trattamento prudenziale del rischio di tasso di interesse.

I mutamenti in corso a livello globale richiedono di insistere sul rafforzamento delle regole che disciplinano l’intermediazione non bancaria. Le forti interdipendenze tra il settore bancario e quello dei fondi d’investimento, nonché quello delle assicurazioni, possono amplificare i rischi e incidere sulle scelte dei risparmiatori. In alcuni paesi, a fronte di una riduzione dei depositi bancari non coperti da garanzia, i fondi monetari hanno registrato di recente un ingente afflusso di risorse. Nel Financial Stability Board sono in corso lavori, cui contribuiamo, per una revisione tempestiva delle raccomandazioni relative ai rischi di liquidità nel comparto dei fondi di investimento e per la definizione di interventi volti a migliorare le prassi di gestione da parte degli intermediari.

Come per le banche, anche per le assicurazioni sulla vita l’aumento dei tassi di interesse può comportare una contrazione della raccolta netta dei prodotti con rendimento prefissato. Le compagnie italiane sono nel complesso robuste e ben capitalizzate e sono in grado di reagire alle mutate condizioni di mercato soprattutto tornando a privilegiare la componente prettamente assicurativa della propria offerta. In un caso, caratterizzato da specifiche debolezze messe in luce dall’azione di vigilanza e dalla mancata tempestiva attuazione della ricapitalizzazione prudenziale richiesta dall’autorità di controllo, sono state assunte misure di risanamento e salvaguardia, tra cui la sospensione temporanea dei riscatti anticipati. In assenza di fondi di garanzia in grado di tutelare la clientela, sono in corso trattative per l’intervento di un gruppo di banche e assicurazioni a salvaguardia dei contraenti; seguiamo attentamente la questione in collaborazione con l’Ivass e in contatto con le autorità di governo.

Come ho ricordato, anche in presenza di una regolamentazione rigorosa e di un’intensa azione di supervisione, non è possibile escludere del tutto che emergano casi di dissesto bancario. I sistemi di garanzia dei depositi rappresentano un elemento fondamentale della disciplina di gestione delle crisi. Gli eventi più recenti hanno messo in evidenza l’importanza di prestare la dovuta attenzione anche alla quota di depositi che eccede il limite della garanzia.

La regolamentazione internazionale ed europea in materia di gestione delle crisi richiede alle banche di maggiori dimensioni di dotarsi di riserve di passività (nell’Unione europea il minimum requirement for own funds and eligible liabilities, MREL) in grado di assorbire le perdite e ricapitalizzare l’intermediario in caso di crisi, minimizzando le ricadute sui depositi non protetti. In questi anni è tuttavia parso evidente che la richiesta di tali riserve non può essere estesa a tutte le banche, viste le difficoltà che quelle più piccole inevitabilmente incontrano nell’accedere ai mercati dei capitali all’ingrosso. Per questa ragione in vari modelli di gestione delle crisi – in particolare quello statunitense – il ruolo di protezione dei depositi delle banche minori continua a essere affidato all’intervento degli schemi di garanzia, nelle forme del sostegno finanziario alla cessione di attività e passività a un terzo acquirente. Ricorrendo a tale modalità, dal 1980 la Federal Deposit Insurance Corporation ha gestito senza traumi il dissesto di oltre 3.500 banche.

Le innovazioni contenute nella proposta della Commissione europea per la revisione della disciplina delle crisi bancarie consentirebbero, con adeguati presidi, agli schemi di garanzia dei depositi di contribuire più agevolmente a farvi fronte. In particolare, il superamento del loro trattamento preferenziale nella gerarchia concorsuale – che auspichiamo da tempo – consentirebbe a questi schemi di intervenire efficacemente in via preventiva o, in caso di dissesto, sostenendo la cessione di attività e passività. Occorre però tenere in considerazione il già citato difficile accesso al mercato dei capitali da parte delle banche di piccole e medie dimensioni; per quelle che saranno soggette a risoluzione, all’intervento dei sistemi di garanzia potrebbe essere associato un minore ammontare minimo di passività da utilizzare in caso di crisi.

La possibilità di derogare in via temporanea ai vincoli che limitano l’accesso a finanziamenti straordinari, pur con i dovuti presidi per scongiurarne un utilizzo indiscriminato, rafforzerebbe il quadro normativo sulla gestione delle crisi, permettendo di agire con rapidità in situazioni di rischio sistemico, che possono essere generate anche da intermediari di piccole dimensioni. La previsione di una tale “valvola di sicurezza” è stata cruciale negli Stati Uniti, dove l’attivazione della systemic risk exception ha permesso al sistema di garanzia dei depositi di intervenire senza limiti, proteggendo, eccezionalmente, tutti i depositanti e riducendo quindi i pericoli di contagio.

 

Le prospettive per l’economia italiana

A fronte degli shock di intensità inusitata degli ultimi anni, l’economia italiana ha mostrato una notevole capacità di resistenza e reazione. Già alla fine del 2021 il prodotto aveva recuperato il crollo registrato nei trimestri successivi allo scoppio della pandemia; ha continuato poi a espandersi lo scorso anno, nonostante le difficoltà poste dalla guerra in Ucraina, con un incremento del 3,7 per cento, ben superiore alle attese. Anche il mercato del lavoro ha pienamente riassorbito il forte calo dell’occupazione, che aveva soprattutto riguardato i giovani e le donne. Nel primo trimestre di quest’anno la crescita dell’economia ha di nuovo superato le attese. Per il 2023 le previsioni oggi disponibili convergono su un aumento del prodotto intorno all’uno per cento.

La ripresa è stata più marcata nelle costruzioni, sostenute dagli incentivi fiscali per la riqualificazione del patrimonio edilizio, e nei servizi, tornati a espandersi significativamente con il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dei contagi. Nonostante le difficoltà in corso d’anno, anche la produzione manifatturiera si è mantenuta in media sui livelli del 2019.

La rinnovata vitalità del sistema economico si è manifestata nella robusta espansione delle esportazioni e nella forte ripresa dell’accumulazione di capitale. Dal quarto trimestre del 2019 le vendite all’estero di beni sono aumentate in volume dell’11 per cento, più che negli altri grandi paesi dell’area dell’euro. Nell’ultimo biennio gli investimenti sono cresciuti di oltre il 20 per cento, segnando una netta cesura rispetto alla protratta fase di debolezza seguita alla crisi finanziaria globale.

Questi andamenti, pur favoriti da generose politiche pubbliche, riflettono il maturare di graduali progressi. La ristrutturazione del tessuto produttivo ha permesso alle imprese di affrontare la crisi pandemica e lo shock energetico con un assetto finanziario più solido ed equilibrato che nei precedenti gravi periodi di crisi. Tra il 2007 e il 2019, in controtendenza rispetto alla media dell’area dell’euro, il loro debito era sceso di quasi 7 punti percentuali, al 68 per cento del PIL (contro una media superiore al 100 per cento nell’unione monetaria). Nello stesso periodo le famiglie hanno mantenuto un livello di indebitamento complessivamente basso, pari nel 2019 al 41 per cento del prodotto (15 punti in meno della media dell’area), concentrato presso i nuclei a più alto reddito, maggiormente in grado di sostenerlo.

Queste indicazioni e la forza della ripresa sono confortanti anche alla luce delle debolezze che ancora affliggono la nostra economia e che negli ultimi decenni si sono riflesse in un progressivo arretramento del reddito pro capite rispetto agli altri paesi avanzati. Ne abbiamo molto discusso, anche in questa sede, osservando come al protratto ristagno della produttività del lavoro abbiano contribuito sia la bassa efficienza dei processi produttivi sia, nella fase successiva alla crisi finanziaria globale, la debolezza dell’accumulazione di capitale.

Negli ultimi venticinque anni il prodotto per ora lavorata è cresciuto di appena lo 0,3 per cento all’anno, meno di un terzo della media degli altri paesi dell’area dell’euro. I margini di flessibilità introdotti nel mercato del lavoro non sono stati accompagnati da investimenti tecnologici adeguati al nuovo contesto; la qualità del capitale umano è ancora insufficiente. Non ne hanno beneficiato né la redditività delle imprese, né le retribuzioni orarie, la cui crescita al netto dell’inflazione è stata tra le più deboli in Europa.

Nonostante la diseguaglianza nelle retribuzioni orarie sia rimasta contenuta tra gli occupati dipendenti del settore privato, la quota di lavoratori con retribuzioni annue particolarmente basse – convenzionalmente inferiori al 60 per cento del valore mediano della distribuzione, pari oggi a 11.600 euro annui – è ancora salita, fino al 30 per cento, dal 25 degli ultimi anni del secolo scorso. Con la maggiore diffusione del lavoro temporaneo e di quello a tempo parziale è sensibilmente aumentato il numero di quanti oggi hanno un impiego solo per una parte dell’anno.

Le forme contrattuali atipiche hanno accentuato la risposta dell’occupazione agli andamenti ciclici dell’economia e favorito in molti nuclei familiari l’aumento del numero di occupati, ancorché con salari modesti. Nel 2022, con la ripresa sostenuta della domanda di lavoro, è cresciuta notevolmente la trasformazione di contratti temporanei in permanenti. In molti casi, però, il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate; la quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20 per cento. Troppi, non solo tra i giovani, non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate; come negli altri principali paesi, l’introduzione di un salario minimo, definito con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale.

L’aumento dei redditi e un deciso miglioramento delle opportunità di impiego richiedono un innalzamento della qualità e della capacità produttiva dell’intero sistema economico, oggi ancora più necessario alla luce dei cambiamenti demografici in corso. Nei prossimi decenni la dinamica della popolazione mondiale continuerà a essere fortemente sbilanciata: alla crescita sostenuta nei paesi in via di sviluppo si contrapporrà quella debole o negativa nei paesi avanzati; tra questi l’Italia si caratterizza per un processo di invecchiamento fra i più rapidi. In soli tre anni, dal 2019 il numero di persone convenzionalmente definite in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni) è diminuito di quasi 800.000 unità. Secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, nello scenario centrale entro il 2040 la popolazione residente si dovrebbe ridurre di due milioni e mezzo di persone; quella tra i 15 e i 64 anni di oltre sei.

Il miglioramento delle condizioni di vita e di salute conseguito negli ultimi decenni potrà consentire a non poche persone di lavorare oltre il limite convenzionale dei 64 anni, in linea con le tendenze già in atto, sostenute anche dalle riforme pensionistiche. Sicuramente occorrerà accrescere la capacità di impiegare i giovani e le donne, i cui tassi di partecipazione in tutte le aree del Paese sono davvero modesti, e nel Mezzogiorno i più bassi d’Europa.

Anche nell’ipotesi molto favorevole di un progressivo innalzamento dei tassi di attività dei giovani e delle donne fino ai valori medi dell’Unione europea, nei prossimi venti anni la crescita economica non potrà contare su un aumento endogeno delle forze di lavoro: gli effetti del calo della popolazione nelle età centrali potranno essere mitigati nel medio periodo, oltre che da un allungamento dell’età lavorativa, solo da un aumento del saldo migratorio (che pure nello scenario di base l’Istat prefigura pari a 135.000 persone all’anno, più del doppio degli ultimi dieci anni, dopo una media di oltre 300.000 nel precedente decennio). Per gestire i flussi migratori occorreranno politiche ben concepite di formazione e integrazione, indispensabili per l’inserimento dei migranti nel tessuto sociale e produttivo. Un recupero della natalità dai livelli particolarmente bassi del 2021, per quanto auspicabile, rafforzerebbe l’offerta di lavoro solo nel lunghissimo periodo.

Le prospettive di sviluppo dell’economia dipenderanno comunque in larga misura dalla capacità di tornare a ritmi di crescita della produttività del lavoro nettamente superiori a quelli degli ultimi venticinque anni e almeno pari a quelli medi osservati negli altri paesi dell’area dell’euro. Dal 2015 si sono fatti chiari progressi: nonostante il contributo nullo dell’accumulazione di capitale, il prodotto per ora lavorata nel settore privato è cresciuto a ritmi non lontani dalla media dell’area. Il proseguimento di questa tendenza richiede che le imprese confermino la ripresa recente degli investimenti e sostengano l’innovazione.

Anche se le ristrutturazioni aziendali hanno favorito il rafforzamento dell’economia, alcuni tratti peculiari, di cui abbiamo più volte discusso in passato, continuano a condizionarne lo sviluppo. La distribuzione dimensionale delle imprese resta sbilanciata verso quelle piccole e piccolissime, a proprietà e gestione familiare. Il problema è accentuato nelle costruzioni e in alcuni rami dei servizi, come quelli professionali e il comparto alberghiero e dei pubblici esercizi, in cui dalla seconda metà degli anni Novanta si registrano tassi di crescita della produttività decisamente modesti, se non addirittura negativi.

Modifiche normative di rilievo, come la riduzione delle barriere all’ingresso e la semplificazione dell’avvio delle attività, hanno stimolato la concorrenza e innalzato l’efficienza delle imprese. Questo conferma che è necessario perseverare nell’agenda delle riforme e superare gli ostacoli e i disincentivi alla crescita dimensionale ancora presenti, spesso impliciti nelle norme amministrative e tributarie. L’evasione fiscale e la diffusione del lavoro sommerso continuano ad alterare i meccanismi concorrenziali a danno delle imprese con maggiori potenzialità.

Un’economia innovativa richiede una forza lavoro qualificata, con conoscenze adeguate e continuamente aggiornate. La quota di laureati tra le persone di età compresa tra i 25 e i 34 anni è ancora oggi inferiore al 30 per cento, contro una media europea superiore al 40. Anche le competenze sono spesso insoddisfacenti, come mostrano le indagini prodotte dagli organismi internazionali. In Italia non mancano giovani con elevate qualità professionali e imprese dinamiche e di successo; ma è ancora troppo bassa la quota di quelle che puntano con decisione sulla valorizzazione del capitale umano e delle capacità manageriali, fondamentali per trarre beneficio dalle nuove tecnologie e accrescere la capacità competitiva dei prodotti e servizi offerti sui mercati nazionali e globali. Le aziende che hanno intrapreso questo percorso si distinguono dalle altre per quote di mercato crescenti, una maggiore intensità del capitale, una redditività più alta e migliori condizioni lavorative e retributive.

Altrettanto necessario è l’innalzamento della qualità della pubblica amministrazione. In tutti i comparti – istruzione, sanità, giustizia – si riscontrano, oltre ai divari rispetto alla media europea, ampie differenze territoriali. Per ridurle e conseguire i necessari miglioramenti occorrono sistemi di monitoraggio e strumenti efficaci per intervenire laddove non si raggiungono standard minimi di qualità. Sui risultati incidono i ritardi nell’uso delle tecnologie digitali, l’elevata età media del personale, l’insufficiente dotazione di competenze specialistiche. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) può stimolare progressi significativi nella digitalizzazione delle amministrazioni; l’accentuazione del turnover già in atto nel pubblico impiego offre l’occasione di acquisire risorse umane con un livello professionale adeguato rispetto ai servizi che lo Stato si impegna a fornire. Oltre a essere un obiettivo del Piano, il rafforzamento della pubblica amministrazione è un fattore cruciale per utilizzarne in maniera rapida e piena le risorse messe a disposizione in tutti i comparti.

Sulle capacità di crescita della nostra economia grava, infine, un sistema tributario complesso, su cui si è spesso intervenuti senza un disegno organico. Il Governo ha manifestato l’intenzione di realizzare un ampio intervento di riforma, con il disegno di legge delega attualmente in discussione in Parlamento. Una ricomposizione del prelievo che riduca il peso della tassazione sui fattori produttivi può stimolare l’occupazione e gli investimenti. La rimozione delle misure che influiscono negativamente sulle scelte dimensionali e organizzative delle imprese, preservando al contempo quelle che incentivano la patrimonializzazione, contribuirebbe ad accrescerne l’efficienza. Modifiche alla tassazione personale attente agli effetti redistributivi andrebbero modulate tenendo conto dell’entità complessiva e delle specifiche caratteristiche dei programmi di sicurezza sociale. La razionalizzazione delle norme e la semplificazione degli adempimenti possono dare certezza e stabilità al sistema, contenendo i costi amministrativi. Nessun intervento può realisticamente prescindere dai vincoli posti dal nostro elevato debito pubblico, né dai principi di progressività e capacità contributiva sanciti dalla Costituzione.

Ridurre la dimensione del debito pubblico è una priorità della politica economica, indipendentemente dalle regole europee. Un alto debito impone che una quota elevata delle entrate pubbliche sia destinata al pagamento di interessi invece che a impieghi produttivi; pone seri problemi di equità tra le generazioni; rende più difficile l’adozione di misure anticicliche; genera incertezza per gli operatori economici. La necessità di rifinanziarlo ogni anno per importi ingenti rende il Paese vulnerabile alle dinamiche avverse dei mercati, anche quando queste ultime non appaiano giustificate dalle condizioni economiche e finanziarie di fondo.

Dopo essere sceso in misura significativa nei primi anni dell’unione monetaria, e poi solo marginalmente fino a poco più del 100 per cento nel 2007, con la duplice crisi, finanziaria e dei debiti sovrani, il rapporto tra debito e PIL è salito bruscamente, anche a causa della bassa crescita nominale e nonostante perduranti avanzi primari, mantenendosi intorno al 135 per cento fino allo scoppio della pandemia. Nel 2020, da un lato il crollo dell’attività produttiva, dall’altro le politiche di sostegno a imprese e famiglie hanno innalzato il rapporto di altri 20 punti percentuali. L’incremento è stato riassorbito per metà nell’ultimo biennio, grazie al differenziale straordinariamente favorevole tra crescita nominale e costo del debito. Alla fine del 2022 il rapporto era pari al 144 per cento.

La riduzione conseguita nella prima parte degli anni Duemila avrebbe potuto essere maggiore, ma gli elevati livelli che oggi registriamo non sono tanto il risultato di politiche di bilancio poco prudenti, quanto l’effetto delle gravissime crisi susseguitesi a partire dal 2007. Proprio come all’avvio della moneta unica, in rapporto al prodotto il nostro debito pubblico è ancora oggi pari a oltre una volta e mezza quello medio del resto dell’area.

Indipendentemente dalle cause che lo hanno portato agli attuali livelli, è oggi prioritario dare continuità al processo di consolidamento avviato nell’ultimo biennio. A questo fine, dato il fisiologico, graduale, aumento dell’onere per interessi, che riflette anche la normalizzazione della politica monetaria, è necessario un ritorno a significativi avanzi primari, come quelli programmati per il medio termine nell’ultimo Documento di economia e finanza. Nei prossimi anni ogni eventuale aumento di spesa o riduzione di entrata, anche nell’ambito di riforme già annunciate quali quella del fisco o dell’autonomia differenziata, non potrà prescindere dall’identificazione di coperture strutturali adeguate e certe.

Il mantenimento di una gestione prudente delle finanze pubbliche costituisce un segnale importante di credibilità; contribuisce a comprimere i rendimenti dei nostri titoli di Stato, avvicinandoli a quelli di altri grandi paesi dell’area dell’euro. Per la riduzione dell’incidenza del debito resta centrale il conseguimento di tassi di crescita stabilmente e sufficientemente elevati. Diversamente da quanto è spesso accaduto in passato, è importante mantenere adeguati il livello e la qualità degli investimenti pubblici; sarà cruciale, anche per favorire le iniziative private di investimento, la capacità delle amministrazioni di selezionare i progetti migliori e metterli in atto nei tempi e ai costi previsti.

Abbiamo più volte sottolineato che il programma NGEU rappresenta per l’Italia l’occasione per ridare slancio allo sviluppo dell’economia e aggredire le debolezze su cui mi sono anche oggi soffermato. Non va tra l’altro sottovalutata l’importanza che esso può rivestire per colmare gli ampi ritardi che il Mezzogiorno ha continuato ad accumulare nel tempo: ritardi che incidono profondamente sulle prospettive dei residenti e si riflettono in un insostenibile spreco di energie e risorse umane che frena lo sviluppo dell’intera economia italiana.

Miglioramenti del PNRR sono possibili. Nel perseguimento di eventuali modifiche bisogna però tenere conto del serrato programma concordato con le autorità europee; al riguardo, un confronto continuo con la Commissione è assolutamente necessario, nonché utile e costruttivo. Non c’è tempo da perdere. Si discute di presunte insufficienze nel dibattito collettivo riguardo al suo disegno, dell’orizzonte temporale limitato per il raggiungimento degli obiettivi, delle possibili carenze nella capacità di attuarne le misure, ma va sottolineato con forza che il Piano rappresenta un raro, e nel complesso valido, tentativo di definire una visione strategica per il Paese. Anche per questa ragione, oltre agli investimenti e agli altri interventi di spesa, è cruciale dare attuazione all’ambizioso programma di riforme, da troppo tempo attese, in esso contenuto.

Si tratta quindi di uno snodo cruciale; esso deve però essere parte di una più ampia strategia di lungo periodo per agevolare la trasformazione della nostra economia. La rende ancor più necessaria l’ineludibile, duplice sfida che ci attende: ineludibile se si vuole, da un lato, contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti – così deleteri, come drammaticamente ancora una volta dobbiamo oggi registrare – e, dall’altro, stimolare una diffusione ampia e sicura dell’innovazione tecnologica, in primo luogo digitale. Serviranno tempi relativamente lunghi, tali da coinvolgere più legislature; gli obiettivi vanno perseguiti con costanza e lungimiranza e con il consenso diffuso dei cittadini. Il successo dipenderà dalla capacità di unire all’azione pubblica un’adeguata risposta del sistema produttivo e finanziario. Si creeranno nuove opportunità, ma saranno necessari anche ingenti investimenti, un’efficiente allocazione del risparmio e una corretta gestione dei rischi.

Anche il sistema finanziario dovrà fare la sua parte. Per cogliere le opportunità connesse con il finanziamento della transizione energetica, gli intermediari dovranno dotarsi di adeguati modelli di valutazione dei rischi climatici, da incorporare nei propri processi operativi. L’obiettivo non è abbandonare tout-court le attività caratterizzate oggi da una più elevata impronta carbonica, ma assistere le aziende energivore, ogni volta che sia possibile e opportuno, nell’intraprendere la strada di una decisa riduzione delle emissioni. Per andare in questa direzione sarà determinante che le imprese forniscano agli intermediari e agli investitori informazioni dettagliate e affidabili e predispongano piani di transizione credibili.

Gestire efficacemente le implicazioni connesse con l’innovazione tecnologica è un’altra sfida cruciale per il sistema finanziario. La Banca d’Italia sostiene e promuove l’innovazione garantendo l’efficienza e la sicurezza delle infrastrutture di mercato, l’aggiornamento del quadro normativo e delle prassi per la gestione dei rischi, la tutela e l’educazione finanziaria della clientela. Si tratta di presidi fondamentali per assicurare che il nostro paese benefici appieno della digitalizzazione dell’economia e della finanza, minimizzandone i rischi.

In questo solco si inserisce anche la nuova sfida rappresentata, per l’Eurosistema, dalla possibile introduzione dell’euro digitale, al cui sviluppo concettuale e tecnico stiamo contribuendo attivamente. Il prossimo autunno il Consiglio direttivo della BCE deciderà se e come passare alla fase dedicata a definire le soluzioni tecniche e commerciali necessarie. Una decisione finale di procedere con la moneta pubblica digitale richiederà in ogni caso l’adozione del necessario impianto normativo da parte del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea.

 

In condizioni di profonda incertezza, nell’angoscia dell’emergenza, tre anni fa ci chiedevamo quali effetti la pandemia avrebbe prodotto sui nostri comportamenti, sul sistema produttivo, il modo di lavorare, le abitudini di consumo. Riconoscendo di “sapere di non sapere”, discutevamo, con dubbi profondi, di nuovi “equilibri” e nuova “normalità”. E parlavamo del ruolo cruciale che straordinari interventi di bilancio e ingenti e tempestive misure di politica monetaria avrebbero avuto nell’attutire e diluire nel tempo le conseguenze della crisi.

Ora, usciti dalla crisi sanitaria, recuperato il drammatico crollo della domanda e superato il “distanziamento sociale”, ci troviamo ad affrontare nuove sfide, nuove emergenze. È certamente lecito chiedersi quanto queste – dalle tensioni e dai rischi di natura geopolitica alle incertezze di natura economica e finanziaria, allo stesso ritorno dell’inflazione – siano legate a quegli eventi e a quelle risposte. Nella storia, non solo economica, le analisi controfattuali sono ardue, ma non manchi, nell’effettuarle, una buona dose di umiltà: quegli interventi, quelle misure non solo hanno contribuito a moderare gli effetti economici e sociali della crisi pandemica, ma hanno certamente avuto un ruolo cruciale nel trasformare in realtà l’impegno e la speranza di quando allora si diceva: “insieme ce la faremo”.

Per questo non possiamo dimenticare chi si è sacrificato nella lotta, a volte impari, ai contagi. Non possiamo ignorare quanto la risposta così rapida della ricerca abbia beneficiato dell’assenza di invalicabili frontiere alla diffusione della conoscenza. Né dobbiamo mancare di dare il giusto rilievo ai successi, anche logistici nonostante difficoltà di varia natura, conseguiti dall’attività connessa con la produzione e la distribuzione dei vaccini, nonché alla capacità di azione, anche in ambito sovranazionale.

Ma torniamo alle tensioni, alle incertezze, all’inflazione. Su quest’ultima mi sono oggi espresso sottolineando ancora una volta l’importanza di tenere dritta la barra della risposta monetaria, ma con la gradualità necessaria per l’incertezza ancora non dissipata riguardo all’evoluzione delle determinanti primarie dell’accelerazione dei prezzi e ai comportamenti che ne possono prolungare durate ed effetti. Il rientro da condizioni di accomodamento monetario estremamente distese era certamente necessario; anche in questo caso ricordiamo, però, il successo del contrasto dei rischi deflativi connessi con le crisi finanziarie, globale e dei debiti sovrani nell’area dell’euro. La normalizzazione monetaria e la restrizione del credito ci riporteranno a prezzi stabili; le ripercussioni sull’economia della nostra area saranno tanto minori quanto più responsabili saranno i comportamenti di tutte le parti che contano, imprese, sindacati, governi.

Le conseguenze politiche, economiche e finanziarie del drammatico conflitto che ancora ha luogo in Ucraina, inconcepibile alla luce delle lezioni della storia del nostro Novecento e inaccettabile per la violazione dei basilari principi di diritto internazionale che ne erano seguiti, si annunciano profonde e di lunga durata. Bisognerà farvi fronte, non abbandonando ma rafforzando l’impegno nella cooperazione internazionale. Le grandi forze di cambiamento, le sfide dei nostri tempi hanno natura globale, non possono avere risposte parziali o non condivise. Soprattutto, nella competizione tra le nazioni bisogna rinunciare alla logica del gioco a somma zero, non tornare ai vecchi modelli di vinti e vincitori, ma operare per coinvolgere attori diversi – per storia, valori e prospettive – alla guida di future iniziative con l’obiettivo di generare benefici diffusi per tutti.

Nell’ultimo quindicennio il nostro paese ha dovuto affrontare sfide ed emergenze in una successione con pochi precedenti. In questa sede mi sono ripetutamente soffermato su come esse sono state fronteggiate, sui vincoli che hanno rallentato le nostre risposte, sui ritardi e gli errori commessi, sui successi ottenuti. Non entrerò quindi in particolari dettagli, la successione dei miei ricordi muovendo dalla crisi finanziaria globale a quella dei debiti sovrani e ai loro prolungati effetti, che ci hanno colto ancora una volta, con un’efficace espressione allora avanzata, “in controtempo”, dopo i ritardi accumulati nello scorcio del secolo scorso.

La pandemia ha colpito il Paese quando esso non aveva ancora pienamente recuperato i danni inferti da quella duplice crisi, quando ancora l’introduzione lenta e frammentata delle necessarie riforme stentava a sciogliere i nodi che frenano il nostro sviluppo. Ma l’Italia ha superato questa terza gravissima crisi, così come lo shock energetico seguito all’aggressione russa all’Ucraina, meglio di quanto ci attendevamo. La ridefinizione dell’organizzazione mondiale della produzione ora ci impone di rafforzare il nostro posizionamento internazionale ed evitare di essere spinti, come in anni non lontani, ai margini delle trasformazioni in corso. Queste non sono soltanto emergenze da affrontare; sono fattori che interagiscono con tendenze inarrestabili – ambientali, demografiche, tecnologiche – e che sono destinate a cambiare radicalmente gli assetti economici e sociali.

La portata di queste tendenze non può che generare incertezze. Nel considerare i rischi che vi sono associati, ci poniamo interrogativi sul futuro nel quale vivranno i bambini di oggi e quelli che ancora non sono nati, ci chiediamo come operare non solo per rispondere ai timori e alle resistenze a esse connesse, ma anche e soprattutto per cogliere le opportunità di cui sono foriere. Continueranno a emergere nuove forme di organizzazione del lavoro e della società, nuovi stili di vita, nuovi modi di cooperare. Bisognerà esserne consapevoli, innanzitutto a livello individuale, puntando come da tempo diciamo, sulla curiosità, lo studio, la conoscenza.

Per quanto riguarda l’istituzione “speciale” che ho servito, con ruoli diversi, per un cinquantennio e che mi appresto quest’anno a lasciare, sono sicuro che su tale consapevolezza saprà fondare il suo operato anche negli anni a venire. Abbiamo sempre presente la necessità di fondare valutazioni e decisioni su informazioni e analisi il più possibile ampie e accurate. Questo, come disse Bonaldo Stringher nel 1900 (ce lo ricorda Gianni Toniolo nel volume sui primi cinquant’anni della Storia della Banca d’Italia da lui completato lo scorso anno poco prima di lasciarci così all’improvviso), con l’intento esclusivo, in comune, non in dissidio, con lo Stato, “di migliorare le condizioni dell’attività nazionale e di migliorarne le sorti”. Estendiamo oggi questo intento, condividendolo nell’Eurosistema, all’area della cui stabilità monetaria e finanziaria da 25 anni condividiamo, nel “governo dell’euro”, la responsabilità.

In effetti, come sappiamo da secoli, l’acquisizione di questa consapevolezza deve avvenire anche a livello collettivo. Nelle parole del nostro sommo poeta: “dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale”, per conseguire la “vita felice … uno solo satisfare non può”. Problemi come la riduzione del debito pubblico o l’adozione di stili di vita coerenti con la difesa dell’ambiente richiedono che la società li comprenda e faccia propri, non perché “ce lo chiede l’Europa”, ma perché ci schermano dai rischi e dischiudono opportunità. È a questo che va rivolta una nuova riflessione collettiva a tutti i livelli, per comprenderne l’importanza e decidere insieme come governarne gli effetti. Lo stesso vale per l’apertura internazionale, così importante per la nostra economia e la nostra cultura, come anche sappiamo da secoli e nonostante il ritardo con cui negli ultimi decenni ne abbiamo tratto vantaggio.

Non siamo però solo “animali sociali”. Come scrive Yuval Noah Harari, ci contraddistingue la capacità “non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente”. Questa capacità di immaginare il futuro sarà cruciale. È per questo che serve mantenere vivo il dialogo, rafforzare per quanto possibile la cooperazione in un mondo dove occorre garantire benefici economici, sanitari, di benessere, a tutti, e ridurre, non aumentare, le disparità. Spetta proprio ai più giovani, meno condizionati dal passato, immaginare quel mondo, individuarne le opportunità. Andranno ascoltati, aiutati dalle altre generazioni a formarsi, senza vincoli, per tradurre in interventi realistici gli schemi che sapranno elaborare per un mondo futuro, non più povero, ma più sicuro e più giusto”.

 

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