domenica 7 Luglio 2024

Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è intervenuto alla Giornata Mondiale del Risparmio del 2023. Ecco il suo discorso:

Visco: “Dopo il 2006 il debito pubblico rischia di salire”

“Il risparmio e la sua controparte naturale, gli investimenti, sono fattori fondamentali per lo sviluppo equilibrato di un paese. A livello individuale, il risparmio consente di trasferire risorse nel tempo, “mettendo da parte reddito” per soddisfare bisogni futuri, come con l’acquisto di una casa, per l’istruzione dei figli, la partecipazione a un fondo pensione, e per essere meno vulnerabili alle congiunture sfavorevoli e guardare al futuro con fiducia.

L’acquisizione di adeguate competenze finanziarie è una forma di investimento in capitale umano capace di accrescere il benessere e le possibilità degli individui; è ancor più importante alla luce dei grandi e rapidi cambiamenti registrati negli ultimi trent’anni in materia di innovazione finanziaria, nonché della crescente digitalizzazione dei mercati. Allo stesso tempo, essa è la prima, necessaria, linea di difesa per i risparmiatori chiamati sempre più a compiere scelte complesse e, a volte, a confrontarsi con prodotti altamente rischiosi. La Banca d’Italia è consapevole dell’importanza dell’alfabetizzazione finanziaria e ha investito molte risorse per favorirla e diffonderla. Ne ho parlato spesso, anche nel recente passato.

Ma il risparmio è anche, per non dire soprattutto, un bene pubblico, capace di generare benefici per la collettività nel suo complesso attraverso il trasferimento delle risorse nello spazio, dalle famiglie risparmiatrici verso imprenditori e aziende. Se ben impiegato, contribuisce in modo cruciale alla crescita economica di un paese attraverso il finanziamento di investimenti produttivi in capitale fisico, umano e tecnologico.

Ne discende il fondamento, economico prima ancora che giuridico, della sua tutela da parte dell’operatore pubblico. Tutela che richiede innanzitutto un’adeguata regolamentazione e supervisione del sistema finanziario nel suo complesso, in quanto esso svolge un ruolo centrale nel raccordare formazione e impiego del risparmio, nel trasferire i fondi da un luogo all’altro e dall’oggi al domani, assicurando che essi raggiungano chi li merita, rimuovendo i vincoli di liquidità.

Tuttavia, la protezione del risparmio va oltre la regolamentazione. Bisogna adoperarsi perché si affermino condizioni economiche e finanziarie tali da far sì che le risorse possano essere utilizzate nel modo più efficiente possibile, contribuendo tanto allo sviluppo economico del Paese quanto al benessere del singolo risparmiatore. La tutela del risparmio mira infatti a far crescere il capitale accumulato alimentando un circolo virtuoso in cui il conseguente rafforzamento dell’attività economica conduce a maggiore occupazione e reddito che, oltre a consumi più elevati, consentono a loro volta nuovi risparmi”.

La congiuntura economica e la politica monetaria

“Nell’attuale fase congiunturale l’andamento del tasso di risparmio delle famiglie riflette spinte contrastanti. Da un lato, è frenato, tramite un effetto di reddito, dalla bassa crescita su cui gravano l’esaurirsi del recupero post-pandemico nel settore dei servizi, gli strascichi dello shock energetico, la stretta monetaria in atto nelle principali economie avanzate. Inoltre, le cospicue risorse accantonate durante la pandemia consentono di destinare una quota maggiore del reddito corrente a finalità di consumo, specie in una fase congiunturale in cui il potere d’acquisto risente dell’alta inflazione.

Dall’altro lato, la propensione al risparmio delle famiglie tende oggi nuovamente a salire per la risposta, di natura precauzionale, all’incertezza e ai rischi al ribasso sulla crescita. È altresì stimolata dal progressivo rialzo dei tassi di interesse reali, che rafforza, in assenza di vincoli di liquidità, quello che gli economisti chiamano l’effetto di sostituzione. Ma sui rischi macroeconomici incidono in misura crescente le tensioni geopolitiche, acuitesi con i drammatici eventi in corso in Medio Oriente, che si aggiungono al protrarsi del tragico conflitto in Ucraina. Pesano inoltre i timori sull’evoluzione e sugli effetti della crisi immobiliare in Cina, il rischio che l’inflazione rimanga su livelli elevati più a lungo di quanto oggi previsto e l’aumentata frequenza di eventi climatici estremi, da cui potrebbero scaturire nuove crisi energetiche e alimentari.

Si tratta, evidentemente, di un’incertezza e di rischi che, data la loro natura “esterna” ai singoli paesi dell’area dell’euro e in generale dell’Unione europea, non possono essere contrastati con misure di natura domestica, ma richiedono interventi ad ampio spettro, condivisi e coordinati. Per quanto possibile, le politiche economiche, nell’area e a livello nazionale, mirano a mitigarne le possibili ricadute sulla domanda e sull’attività produttiva e a garantire il ritorno dell’inflazione sui livelli desiderati in tempi sufficientemente rapidi. Un contributo cruciale, ancorché

necessariamente distribuito nel tempo, al conseguimento di ritmi di crescita più elevati, bilanciati e duraturi, nonché al mantenimento dell’inflazione su livelli contenuti, non può che provenire dalla tempestiva attuazione di profonde riforme e decisi interventi di natura strutturale, resi oggi ancora più urgenti dalle sfide connesse con il cambiamento climatico, la transizione digitale e l’evoluzione demografica.

Nell’area dell’euro il quadro congiunturale è chiaramente insoddisfacente. Dalle informazioni disponibili si può desumere una crescita economica pressoché nulla nei mesi estivi. L’attività è fiacca nella manifattura e si sta indebolendo nei servizi. Le indagini della Commissione europea rilevano un deterioramento della fiducia dei consumatori sia sulle prospettive economiche a breve termine sia su quelle della propria situazione finanziaria. Il mercato del lavoro continua a tenere, ma emergono primi segnali di un rallentamento dell’occupazione.

La dinamica dei prezzi, che in larga parte ancora riflette fattori di offerta esterni, è in deciso calo. In settembre l’inflazione al consumo è diminuita al 4,3 per cento, un livello inferiore alla metà del picco osservato un anno fa (10,6 per cento). La recente, più contenuta, flessione della componente al netto dei beni alimentari ed energetici, scesa in settembre al 4,5 per cento, conferma che le pressioni inflazionistiche si stanno gradualmente riassorbendo. La crescita dei salari, pur robusta ed eterogenea tra paesi, si mantiene nel complesso dell’area in linea con le attese. Si tratta di segnali positivi, anche se l’inflazione ancora resta su livelli elevati e va attentamente tenuta sotto osservazione l’evoluzione di tutti i fattori che la sospingono.

Prosegue, al contempo, l’irrigidimento delle condizioni di finanziamento. A fronte del progressivo aumento del costo dei prestiti, che ha risposto in misura più rapida e intensa del passato alla restrizione monetaria, in settembre sia la dinamica del credito alle imprese sia quella dei mutui per l’acquisto di abitazioni da parte delle famiglie sono state pressoché nulle nell’area e negative in Italia. Si è inoltre recentemente osservato un netto rialzo dei tassi reali a medio e lungo termine, che ha principalmente riflesso un incremento del premio a termine derivante in particolare dagli Stati Uniti. Le cause di questo rialzo sono ancora incerte ma, se duraturo, questo effetto di natura esterna contribuirà a contenere ulteriormente la domanda aggregata.

In questo contesto, lo scorso giovedì il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha deciso di mantenere i tassi di interesse ufficiali invariati, dopo averli portati, con un aumento di 4,5 punti percentuali da luglio 2022, in territorio restrittivo. La riduzione in corso dell’inflazione è in linea con le attese, i timori di rincorse tra prezzi e salari e di disancoraggio delle aspettative d’inflazione si sono nettamente attenuati, e così pure i possibili effetti di una crescita della domanda in eccesso rispetto alla capacità produttiva dell’area. Peraltro, dati i ritardi con cui si trasmettono gli interventi di politica monetaria, ci si può attendere un ulteriore contenimento della domanda nei prossimi mesi, con una dinamica dell’attività produttiva ancora modesta e il proseguimento della discesa dell’inflazione.

Ritengo che l’orientamento del Consiglio a mantenere i tassi di riferimento sugli attuali livelli per un periodo sufficientemente lungo – a regolare, cioè, la persistenza della nostra azione più che la sua intensità – sia una decisione saggia. Tale approccio fornisce infatti, in assenza di nuovi forti shock dal lato dell’offerta, il giusto equilibrio tra il rischio di fare troppo e quello di non fare abbastanza, riducendo allo stesso tempo le possibili ripercussioni sulla già debole attività economica e i rischi per la stabilità finanziaria. In ogni caso occorrerà certamente prudenza nei prossimi mesi, dopo un aumento così marcato e veloce dei tassi ufficiali.

Si può certo discutere sulla intensità di questi interventi, anche alla luce del tempo che normalmente intercorre prima di vederne pienamente gli effetti. Ma vi è chi ritiene che tale intensità sia dovuta a un possibile ritardo della politica monetaria nel contrastare fattori inflazionistici già in atto dai primi mesi del 2021, quando, anche e soprattutto grazie all’inizio della campagna di vaccinazione, già erano venuti meno gli straordinari timori connessi con l’esplosione della pandemia. Si suggerisce, in particolare, che siano stati gli errori nella previsione della dinamica inflazionistica, peraltro non confinati al livello delle banche centrali, ad aver determinato tale ritardo e che se l’azione di politica monetaria fosse stata anticipata si sarebbero contenuti sia l’eccessivo rialzo dei prezzi occorso nell’ultimo biennio sia la forte decelerazione dell’attività economica osservata nell’anno in corso.

Non è questa la sede per entrare in questo dibattito, oltretutto come parte in causa; ho già però avuto modo di osservare che nell’area dell’euro, diversamente che altrove, fino all’autunno del 2021 non vi erano condizioni evidenti per dare inizio ad annunci di normalizzazione delle condizioni monetarie, pure riconosciute essere largamente accomodanti. L’inflazione ancora stentava a riportarsi in modo stabile sull’obiettivo del 2 per cento nel medio periodo e la massima parte dei successivi errori di previsione è derivata non da fattori di domanda ma dalla eccezionale dinamica delle quotazioni dei prodotti energetici, acuita in seguito dai drammatici eventi in Ucraina. Alla luce di queste osservazioni ritengo che la reazione del Consiglio all’accelerazione dei prezzi sia stata, anche se di intensità senza precedenti, in linea con il graduale evolversi della situazione e che, a fronte di uno shock di offerta di tali dimensioni, abbia correttamente mirato a contrastare il propagarsi dell’inflazione via successivi adeguamenti di prezzi, salari e aspettative inflazionistiche.

Sotto questo profilo la politica monetaria sta di certo dando i suoi frutti. La grande incertezza riguardo alle condizioni economiche e geopolitiche a livello internazionale e il rischio di ulteriori impulsi negativi dal lato delle ragioni di scambio hanno portato a confermare l’intenzione di prestare particolare attenzione alle informazioni che si renderanno via via disponibili, ma questo non vuol dire che una strada non sia ormai stata tracciata. Occorre garantire che il rientro dell’inflazione si compia nei tempi stabiliti; occorre però al tempo stesso evitare che eccessi di restrizione monetaria e del credito abbiano inappropriati effetti recessivi, contribuendo anche per tale via ad alimentare l’incertezza sull’economia e sulla stessa stabilità dei prezzi. Due condizioni, queste, cruciali anche per le decisioni e le possibilità di risparmio”.

Il risparmio e la finanza in Italia

“La fase di sostanziale ristagno del prodotto è proseguita in Italia anche nell’estate. Le nostre indagini e gli indicatori qualitativi continuano a segnalare una diffusa debolezza dell’attività manifatturiera; nonostante il buon andamento del turismo, nei servizi sembra essersi esaurito il forte recupero che ha fatto seguito alla fase più acuta della pandemia.

Pur ricordando che in un contesto difficile come quello attuale stime puntuali hanno natura puramente indicativa, secondo lo scenario di base illustrato nel Bollettino economico della Banca d’Italia pubblicato a metà ottobre la crescita del PIL sarebbe pari allo 0,7 per cento quest’anno, allo 0,8 nel 2024 e all’1,0 nel 2025. I rischi che circondano queste stime sono, come per quelle sull’economia mondiale e sugli altri principali paesi dell’area dell’euro, orientati al ribasso, soprattutto per l’acuirsi delle tensioni geopolitiche e l’irrigidimento delle condizioni di finanziamento.

La dinamica del prodotto, l’inflazione e l’aumento dei tassi stanno a loro volta influendo sulla propensione delle famiglie italiane a risparmiare. L’evoluzione recente del risparmio va tuttavia inquadrata in una prospettiva più ampia. Dalla metà degli anni Novanta, quando superava il 20 per cento, il rapporto tra risparmio e reddito disponibile delle famiglie, storicamente elevato nel confronto internazionale, è diminuito sensibilmente, collocandosi nel 2019 al 10 per cento, un livello inferiore a quello medio dell’area dell’euro (fig. 1). La flessione riflette tendenze di lunga durata, tra cui le dinamiche demografiche e lo sviluppo del settore finanziario, che ha accresciuto la capacità delle famiglie di ottenere prestiti e di ridistribuire i consumi lungo l’arco della vita, nonché il protratto periodo di bassi tassi di interesse, che ha reso tali finanziamenti meno onerosi.

Nel 2020, con la drammatica diffusione della pandemia da Covid-19 e le conseguenti misure di distanziamento sociale, da noi come a livello internazionale, si è assistito a un eccezionale incremento del risparmio delle famiglie, fino a ben oltre il 20 per cento del loro reddito disponibile nel secondo trimestre di quell’anno. Anche se il crollo dell’attività produttiva è stato ampiamente attenuato dalle misure disposte dal Governo a supporto delle famiglie, vi si è infatti accompagnata una drastica riduzione della spesa per consumi. Pur riprendendosi, grazie al rimbalzo dell’economia, l’attività di consumo, anche nel 2021 le famiglie hanno continuato ad accantonare più risorse di quanto sarebbe avvenuto in assenza dell’emergenza sanitaria: dopo aver raggiunto un massimo nella primavera del 2022, secondo stime condotte in Banca d’Italia, l’ammontare complessivo del risparmio accumulato era ancora al 2 per cento del totale delle attività finanziarie nette delle famiglie alla metà di quest’anno.

Dal secondo semestre del 2021, con il progressivo rialzo del costo dell’energia, poi esploso con l’invasione russa dell’Ucraina, l’inflazione ha però cominciato a erodere il potere di acquisto delle famiglie e il valore reale dei loro risparmi. Nonostante il consistente risparmio addizionale ancora detenuto, la ricchezza finanziaria in termini reali si colloca oggi lievemente al di sotto dei livelli pre- pandemici, in linea con quanto osservato nella media dell’area dell’euro (fig. 2). Nello stesso arco di tempo la propensione a risparmiare è progressivamente tornata a calare, collocandosi già nella seconda metà del 2022 al di sotto dei valori precedenti la pandemia e scendendo all’8,5 per cento nella media dei primi sei mesi dell’anno in corso. Peraltro, con riferimento al settore privato nel suo complesso, la disponibilità di risparmio per l’economia nazionale (inclusi quindi gli utili non distribuiti delle società non finanziarie), pur se sempre in flessione nel più lungo periodo, è ancora nell’intorno del 20 per cento del reddito disponibile.

La composizione attuale della ricchezza finanziaria delle famiglie, oggi pari a circa 5.300 miliardi (4 volte il reddito disponibile), continua nel complesso a riflettere il prolungato periodo di condizioni finanziarie molto distese, interrottosi nel corso dell’ultimo anno. È andata aumentando la quota di strumenti del risparmio gestito sul totale delle attività finanziarie, anche in connessione con l’accresciuta offerta di questi prodotti da parte degli intermediari. A giugno scorso si collocava al 30 per cento; il divario rispetto alla media dei paesi dell’area dell’euro (circa 35 per cento) riflette sostanzialmente lo scarso sviluppo del comparto dei fondi pensione. Alla ricchezza finanziaria si affianca, per un ammontare sostanzialmente analogo, la ricchezza immobiliare, tornata a crescere dopo la prolungata debolezza in atto fin dai primi anni dello scorso decennio.

In un contesto di elevata inflazione e di aumento dei tassi, si è osservato di recente uno spostamento dai depositi a vista, cresciuti in misura molto rilevante nel post-pandemia, a strumenti finanziari più remunerativi. Nei primi sei mesi di quest’anno, in particolare, si sono registrati oltre 70 miliardi di acquisti netti di titoli del debito pubblico, un valore molto elevato nel confronto storico. La quota di questi titoli detenuti direttamente dalle famiglie sul totale delle loro attività finanziarie ha raggiunto il 4,2 per cento, il valore più alto dal 2014; quella dei depositi il 26,0 per cento, il valore più basso dal 2008 (fig. 4); si può stimare che tenendo anche conto dei titoli del debito pubblico detenuti indirettamente a fronte di investimenti in fondi comuni la relativa quota salga a circa il 7 per cento, oltre il 16 per cento del totale dei titoli pubblici.

Questo processo di riallocazione del risparmio è stato influenzato dalla trasmissione molto contenuta dei rialzi dei tassi ufficiali alla remunerazione dei depositi a vista, da noi come negli altri paesi dell’area. Ad agosto il rendimento dei conti correnti detenuti da famiglie, che all’avvio del processo di normalizzazione della politica monetaria era sostanzialmente nullo in tutti i principali paesi dell’area, era pari allo 0,3 per cento (0,5 in Germania, 0,1 in Francia e in Spagna). La trasmissione è stata invece ampia per i tassi sui depositi a termine che sono cresciuti in linea con quelli di riferimento, portandosi da livelli prossimi a zero al 3,4 per cento (3,1 in Germania, 3,6 in Francia, 2,3 in Spagna).

Nel confronto con quella dei depositi a termine o delle obbligazioni, la remunerazione molto contenuta dei conti correnti riflette almeno in parte la loro maggiore liquidità e, di conseguenza, il fatto che vi si ricorra normalmente per motivi transazionali e non come forma di investimento del risparmio. Un rendimento maggiore può essere ottenuto allocando parte delle giacenze disponibili sul conto corrente in depositi con scadenza prestabilita, peraltro coperti dalla stessa garanzia di cui beneficiano i conti correnti.

In Italia circa il 60 per cento delle attività finanziarie delle famiglie è investito direttamente in strumenti emessi o gestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari. Solidità e correttezza degli intermediari concorrono dunque alla difesa del risparmio, mantenendo elevata la fiducia del pubblico nel sistema finanziario, senza la quale non è possibile assicurare la stabilità del sistema stesso.

La regolamentazione e la supervisione prudenziale mirano ad assicurare che i rischi assunti dagli intermediari siano adeguatamente presidiati, a prescindere dal tipo di intermediario che deve affrontarli e gestirli. A rischi simili debbono dunque corrispondere simili presidi, senza sottovalutare le interconnessioni tra i diversi comparti del sistema.

Per questo motivo applichiamo requisiti a volte più stringenti che in altre giurisdizioni, avvalendoci della discrezionalità consentita dalla normativa europea. In particolare, nel nostro paese i fondi comuni che investono più di un quinto della massa gestita in strumenti illiquidi (come quelli immobiliari) debbono necessariamente essere costituiti in forma chiusa; per evitare fenomeni di contagio, le società finanziarie che erogano credito sono inoltre sottoposte ai medesimi requisiti prudenziali delle banche; per mantenere efficiente il mercato secondario dei crediti deteriorati, un tassello importante della complessiva stabilità del sistema, abbiamo intensificato l’azione di vigilanza sui servicers deputati al recupero di finanziamenti cartolarizzati.

La stabilità del sistema finanziario passa anche per il vaglio da parte delle autorità di vigilanza della sostenibilità dei modelli di attività degli intermediari, della loro efficienza, della qualità dei loro assetti proprietari. Attività, queste, che sono state rafforzate negli ultimi anni con approfondimenti tematici ad hoc volti a rendere i diversi operatori meglio in grado di affrontare le sfide, sia congiunturali sia strutturali, che li attendono.

Nel breve termine i rischi per il settore finanziario derivano principalmente dal rallentamento congiunturale e dal rapido aumento dei rendimenti delle attività, che espongono gli intermediari all’acuirsi del rischio credito, di tasso di interesse e di liquidità. Questi rischi non vanno sottovalutati, ma possono essere affrontati partendo da condizioni di partenza in complesso soddisfacenti.

Lo scorso giugno il rapporto tra il capitale di migliore qualità e gli attivi ponderati per il rischio (CET1 ratio) ha raggiunto il 15,6 per cento, il valore più elevato da quando la regolamentazione ha introdotto questa misura di capitalizzazione. La qualità dei prestiti bancari, percepita per molta parte dello scorso decennio come una delle principali vulnerabilità del nostro sistema, rimane per ora buona. I flussi di nuovi crediti deteriorati sono sostanzialmente stabili su valori storicamente bassi (1,1 per cento), così come l’incidenza di questi attivi sul totale dei finanziamenti (1,4 per cento, al netto delle rettifiche di valore). Gli indicatori di liquidità, nonostante un calo determinato dalla restituzione dei fondi presi a prestito per mezzo delle operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, rimangono ampiamente superiori ai minimi regolamentari. La disponibilità di attivi stanziabili presso la banca centrale è ampia. Infine, nel primo semestre di quest’anno il rendimento del capitale e delle riserve si è collocato su valori eccezionalmente elevati, anche per le ancora basse rettifiche su crediti.

Non può che restare tuttavia elevata l’attenzione all’evoluzione prospettica della qualità del credito, che secondo le nostre proiezioni, coerenti con i più recenti scenari macroeconomici, dovrebbe peggiorare già dalla fine dell’anno in corso, pur se la consistenza dei crediti deteriorati sul totale dei finanziamenti dovrebbe restare ampiamente inferiore a quanto registrato in passato. In un contesto caratterizzato da una trasmissione ancora parziale degli impulsi della politica monetaria ai rendimenti delle passività bancarie e da un ammontare non trascurabile di fondi acquisiti per mezzo delle operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine in scadenza entro la metà del prossimo anno, anche le condizioni di liquidità continueranno a richiedere un’attenzione altrettanto elevata da parte degli intermediari. Le banche dovranno quindi aggiornare con elevata frequenza, alla luce dell’evoluzione del contesto di mercato, i piani di provvista e verificare l’esposizione al rischio di tasso d’interesse, mantenendo equilibrata la struttura per scadenze dell’attivo e del passivo.

Anche il comparto dei fondi comuni aperti mostra condizioni complessivamente solide e ha superato senza particolari difficoltà l’aumento dei rendimenti delle attività

finanziarie. Nei primi sei mesi dell’anno la raccolta netta è stata lievemente positiva; i principali indicatori di vulnerabilità al rischio di liquidità sono rimasti su livelli contenuti, così come quelli relativi alla leva finanziaria. In particolare, la rilevanza sistemica dei fondi di investimento alternativi, il cui ricorso all’indebitamento è considerevolmente maggiore di quello dei fondi tradizionali, è bassa nonostante nell’ultimo decennio il patrimonio da essi gestito sia raddoppiato.

Con riferimento al più lungo periodo, le scelte di risparmio dovranno confrontarsi nei prossimi anni con i grandi cambiamenti strutturali in corso. Come ho più volte avuto modo di ricordare, la digitalizzazione dell’economia e della finanza comporta opportunità e rischi sia per gli intermediari sia per i risparmiatori. Da un lato, l’adozione di nuove tecnologie può ridurre i costi dell’intermediazione, facilitare l’accesso ai servizi finanziari e ampliare la platea dei potenziali clienti. Dall’altro, essa aumenta la vulnerabilità agli attacchi informatici, con il conseguente rischio della diffusione di dati sensibili, accresce la probabilità di malfunzionamenti che possono portare all’interruzione della fornitura di servizi, può esporre i clienti a un uso improprio e discriminatorio delle informazioni che essi forniscono agli intermediari.

L’azione della Banca d’Italia su questo fronte è dunque duplice. A iniziative mirate a favorire l’adozione di nuove tecnologie da parte degli intermediari se ne affiancano altre volte a presidiare adeguatamente i rischi. In particolare stiamo rafforzando i nostri interventi per spingere gli intermediari a migliorare la capacità di difesa dagli attacchi informatici, mitigare i rischi derivanti dall’esternalizzazione di alcune funzioni presso un numero limitato di operatori e valutare attentamente possibili conseguenze indesiderate dall’adozione dell’intelligenza artificiale.

Infine, il risparmio, attraverso scelte consapevoli, può dare un importante contributo anche al raggiungimento degli obiettivi di transizione climatica, favorendo la riduzione delle emissioni carboniche. Segnali in questa direzione provengono dalla crescita dei fondi comuni aperti che investono in strumenti volti a finanziare attività economiche con impatto positivo sulla sostenibilità sociale e ambientale, il cui patrimonio gestito in Italia ha raggiunto quasi 500 miliardi. Per accrescere la fiducia dei risparmiatori sull’effettiva utilità di questi strumenti e aumentare per questa via il loro contributo allo sviluppo di una economia più attenta ai rischi ambientali è però necessario disporre di dati affidabili sull’impronta carbonica delle attività finanziate e sui piani di transizione delle imprese non finanziarie, e che queste informazioni vengano correttamente comunicate al pubblico. Vi è infatti anche un altro rischio da contrastare, cosiddetto di greenwashing. È un aspetto, questo, che richiede la definizione, approfondita e condivisa, di standard globali ed europei, cui prestiamo la nostra attenzione e cui contribuiamo”.

Il debito pubblico

“Come ho ricordato, le famiglie italiane affidano allo Stato, sottoscrivendo titoli del debito pubblico, una quota non irrilevante della loro ricchezza. Come ogni buon debitore, anche l’emittente pubblico ha il dovere di farne buon uso e di restituirla nei modi e nei tempi promessi. Ma, a differenza dei prenditori privati, il compito dello Stato non si esaurisce nella restituzione di quanto preso a prestito. La tutela del risparmio e il suo impiego efficiente richiedono politiche economiche che assicurino il mantenimento di condizioni finanziarie equilibrate, stabilizzino le fluttuazioni cicliche dell’economia e ne migliorino il potenziale di crescita. Per i paesi ad alto debito ridurne l’incidenza rispetto al prodotto è una priorità: un debito eccessivo rispetto alla capacità di crescita riduce gli spazi per le politiche anticicliche, espone l’economia a tensioni sui mercati e aumenta i costi per lo Stato, e in ultima analisi per le famiglie e le imprese.

Nel 2022 in Italia il rapporto tra debito pubblico e prodotto è stato pari al 141,7 per cento, il più elevato nell’Unione europea dopo quello della Grecia, anche se non va trascurata la significativa riduzione occorsa dopo il forte aumento connesso con la pandemia: alla fine di quest’anno quasi 15 degli oltre 20 punti di incremento registrati nel 2020 – oltre la metà dei quali dovuti all’effetto meccanico del denominatore – saranno stati riassorbiti.

Nel prossimo triennio, tuttavia, la flessione attesa nei programmi del Governo è marginale; nel 2026 il debito sarebbe pari a poco meno del 140 per cento del PIL. Successivamente, in assenza di interventi, il rapporto rischierà di salire. In prospettiva, infatti, il costo medio del debito dovrebbe tornare a collocarsi su livelli più elevati del tasso di crescita nominale dell’economia e diventeranno più rilevanti gli impatti dell’invecchiamento della popolazione sulla spesa sociale.

Nel ventennio che ha preceduto la pandemia, il differenziale tra l’onere medio del debito e il tasso di crescita è stato costantemente sfavorevole e in media pari a quasi due punti percentuali. La profonda recessione che ha colpito il Paese nel 2020 lo ha poi portato a un valore prossimo ai dieci punti. Nel successivo biennio, la ripresa post-pandemica e, in parte, la dinamica sostenuta del deflatore del prodotto hanno invece determinato valori eccezionalmente favorevoli del differenziale: la crescita del prodotto nominale è stata più alta del costo medio del debito di oltre 5 punti percentuali in media all’anno.

Secondo la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza pubblicata a fine settembre, il differenziale dovrebbe essere ancora favorevole nell’anno in corso e nel successivo biennio. Tuttavia, a causa dell’effetto combinato della normalizzazione del tasso di crescita e della graduale trasmissione del rialzo dei tassi di interesse, l’ampiezza di questa differenza si dovrebbe ridurre nel tempo. Nel 2026 si tornerebbe a un valore sfavorevole, sebbene molto contenuto. Negli anni a venire andranno compiuti, come riconosce lo stesso Governo, sforzi ulteriori sia sul fronte della politica di bilancio, sia su quello degli interventi per innalzare il potenziale di crescita dell’economia. Il raggiungimento e il mantenimento di adeguati avanzi primari è un elemento necessario, ma il consolidamento dei conti non deve, come occorso in passato, compromettere la qualità della spesa pubblica e la sua capacità di sostenere la crescita. Il contenimento delle erogazioni correnti richiede di compiere scelte sulla base di priorità ben definite, con la revisione, lungo un percorso necessariamente pluriennale, di procedure, atti e specifici programmi di spesa. Allo stesso tempo, le coperture, credibili e necessarie per evitare il ricorso al disavanzo, potranno essere gradualmente rimosse quando l’economia tornerà a espandersi a ritmi progressivamente più elevati.

Le risorse disponibili vanno prioritariamente indirizzate verso quegli investimenti che il settore privato non potrebbe porre in atto a causa dell’orizzonte temporale troppo esteso, dell’elevata rischiosità, della mancata internalizzazione delle loro ricadute sociali o ambientali. Questi investimenti, che includono quelli in capitale umano, tendono a ripagarsi nel lungo periodo e, in ultima analisi, non hanno effetti negativi sulla sostenibilità delle finanze pubbliche.

Ancora giustamente si cita, forse più che in passati decenni, John Maynard Keynes, ricordando gli effetti moltiplicativi di una spesa in disavanzo. Si trascurano tuttavia due aspetti fondamentali. Il primo riguarda le condizioni di breve periodo. L’utilizzo del bilancio pubblico secondo Keynes aveva come obiettivo quello di attenuare gli effetti delle fluttuazioni cicliche dell’economia in caso di domanda privata insufficiente e poco reattiva. Al riguardo ricordo spesso le parole di Lawrence Klein, economista keynesiano cui si deve il massimo contributo all’affermazione dei modelli econometrici nell’analisi delle fluttuazioni economiche e delle politiche di stabilizzazione: “non vi è nulla nelle prescrizioni keynesiane a sostegno di politiche pubbliche altamente squilibrate o di un affidamento eccessivo alla politica monetaria a fini di stabilizzazione economica”. Il secondo aspetto ha una prospettiva più di lungo periodo alla luce della quale, con le parole dello stesso Keynes, “la cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

Recentemente, il differenziale di rendimento tra i nostri titoli di Stato decennali e quelli tedeschi è tornato a crescere, collocandosi intorno ai 200 punti base, dopo la sensibile riduzione registrata in primavera. Rimane inoltre significativamente superiore a quello osservato in altri paesi europei a noi simili, tra cui la Spagna e il Portogallo.

L’aumento dello spread riflette senza dubbio anche fattori globali, non specifici del nostro paese: la politica monetaria ha innalzato rapidamente e significativamente i tassi ufficiali e gli equilibri geopolitici internazionali sono stati turbati dal conflitto in Ucraina e dalle tensioni in Medio Oriente. Tuttavia l’effetto sui rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano di tale accresciuta incertezza è stato superiore a quello registrato negli altri paesi dell’area probabilmente perché gli investitori temono per la capacità di sviluppo dell’Italia e percepiscono che, anche per questa ragione, il bilancio pubblico non è ancora in equilibrio”.

Conclusioni

“Riguardo a tali timori, si può partire dalla considerazione che l’economia italiana dispone di fondamentali nel complesso solidi. La disponibilità di risparmio del settore privato è elevata e il suo debito è contenuto nel confronto internazionale. L’indebitamento delle famiglie è pari a circa il 60 per cento del reddito disponibile (il 40 per cento del PIL) a fronte di una media nell’area dell’euro superiore al 90 per cento; quello delle imprese si colloca intorno al 65 per cento del PIL a fronte di una media del 100 per cento. Il nostro sistema produttivo, pur caratterizzato da ritardi e inefficienze, mostra vitalità e capacità di competere sui mercati globali; lo conferma la posizione patrimoniale netta sull’estero del Paese, che è tornata positiva già dalla seconda metà del 2020 ed è oggi pari a circa il 5 per cento del prodotto.

Una rapida riduzione del disavanzo che preservi, come prima ricordato, la qualità della spesa, rafforzerebbe la sostenibilità a lungo termine del nostro debito pubblico; ciò rappresenta il contributo principale che la politica di bilancio può e deve dare alla tutela del risparmio delle famiglie italiane – non solo di quello investito direttamente in titoli di Stato. Ma la sfida più importante per il Paese resta quella di realizzare riforme e investimenti capaci di spingere verso l’alto il tasso di crescita potenziale.

Le difficoltà dell’economia italiana dipendono da debolezze strutturali troppo a lungo trascurate; a esse non si può sopperire con politiche di stabilizzazione monetaria o con l’espansione del bilancio pubblico. Per rendere sostenibile nel tempo una crescita più elevata occorre rimuovere gli ostacoli allo sviluppo, promuovere l’innovazione e la conoscenza, favorire la crescita dimensionale delle imprese e accompagnare la modernizzazione del nostro tessuto produttivo.

Ampi progressi sono possibili: i tassi di occupazione delle donne e dei giovani sono molto al di sotto della media europea; in alcuni settori dei servizi la concorrenza è insufficiente; la qualità dei servizi pubblici è carente e complessivamente bassa e l’efficacia della pubblica amministrazione è assai eterogenea sul territorio nazionale; in alcune aree persistono ritardi strutturali di sviluppo. Segnalare concretamente la volontà di colmare tali divari (anche attraverso il valido utilizzo dei fondi europei) contribuirebbe a rafforzare la fiducia degli investitori; ne risulterebbe una riduzione dei rendimenti del debito pubblico.

L’occasione offerta dall’attuazione dei progetti contenuti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e delle riforme che di esso sono parte, che si concentrano proprio su questi ritardi e sul deciso avvio della transizione verde e digitale della nostra economia, non ha precedenti. Modifiche al Piano, semplici, mirate e volte ad accrescerne l’efficacia, restano possibili, anche se è necessario procedere senza dilazioni eccessive. Il potenziale delle riforme e la disponibilità di investimenti ampi e innovativi nelle infrastrutture materiali e immateriali del Paese vanno oltre il loro effetto diretto sulla domanda aggregata; devono, e possono, produrre lo stimolo prolungato nel tempo agli investimenti privati, delle imprese italiane e dall’estero, necessari per accrescere con decisione le capacità di sviluppo della nostra economia.

Dobbiamo soprattutto evitare di ripetere gli errori commessi in passato quando il nostro sistema produttivo si fece trovare impreparato dinanzi ai grandi cambiamenti portati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Per questa ragione investire è essenziale non solo per colmare le lacune pregresse, ma anche per essere pronti a cogliere le opportunità delle prossime “rivoluzioni” climatiche e digitali. Solo per questa via potremo tornare a crescere in modo stabile, lungo una traiettoria equilibrata e sostenibile capace di innalzare i livelli di occupazione e ricondurre la produttività su un trend crescente. Ciò consentirà di far aumentare anche le retribuzioni e dare giusta tutela al lavoro, in particolare delle più giovani generazioni, ed è questa, peraltro, la via principale per tutelare il risparmio. A lungo andare la sua remunerazione non può che dipendere dalle prospettive economiche di medio e lungo termine.

Il conseguimento di tale obiettivo non è responsabilità unica del Governo, è un’opera collettiva; ma la politica economica ha il compito di definire la cornice adeguata, fornire incentivi e rimuovere i freni all’attività produttiva, accrescere e mantenere elevata con opportuni investimenti la qualità delle infrastrutture pubbliche. Dal canto loro, imprese e famiglie, con al loro servizio un’intermediazione finanziaria equilibrata e attenta, devono essere pronte a investire per cogliere le occasioni offerte dal mercato e dalle nuove tecnologie.

Si tratta di un interesse comune, e di questo bisogna essere tutti consapevoli; tutti devono contribuire al cambiamento ricercando nuove e maggiori competenze. Da questo dipendono la sostenibilità dello sviluppo economico e sociale, la capacità di tutelare gli equilibri ambientali e di creare lavoro. Vanno poste in atto le condizioni affinché il risparmio, non solo nazionale, possa trovare in Italia adeguati sbocchi negli investimenti privati; così pure le risorse pubbliche, comprese quelle europee, vanno impiegate per porre solide basi per il ritorno su un sentiero stabile di crescita sostenuta.

Si tratta quindi, ricordando il Candide di Voltaire, di “coltivare il nostro orto” (“il faut cultiver notre jardin”). Ma nell’attuale contesto mondiale, in un mondo che di certo non è “il migliore dei mondi possibili”, è improbabile che possa bastare. È difficile comprendere oggi tutte le possibili conseguenze delle tensioni geopolitiche, che non accennano ad attenuarsi. Gli equilibri internazionali sono da tempo oggetto di riflessione, riflessione resa necessaria e guidata dai gravi shock che si sono susseguiti nell’economia mondiale negli ultimi quindici anni, nonché dai graduali cambiamenti di ordine demografico, economico e politico nei paesi avanzati e in quelli emergenti. La pandemia, la guerra in Ucraina e, ora, i drammatici eventi in Medio Oriente potrebbero deviare il corso di questo ripensamento e accrescere il rischio di una migrazione verso un mondo sempre più diviso in blocchi, con minori movimenti non solo di beni, servizi e capitale finanziario, ma anche di tecnologie e idee.

Il pericolo è grave. Non soltanto perché un mondo aperto è un formidabile motore per la crescita economica e per il contrasto della povertà, ma anche perché le grandi sfide che abbiamo di fronte non possono essere superate se non con un impegno crescente di tutti i principali attori politici, economici e finanziari a livello globale. Dunque è giusto tenere la casa in ordine, porre le condizioni per un ritorno duraturo a tassi più alti, ed equilibrati, di crescita dell’economia nazionale; è però oggi cruciale contribuire, a tutti i livelli, a salvaguardare, in tutti i modi in cui è realisticamente possibile, la cooperazione internazionale, mantenere vivo, riducendone le imperfezioni, il sistema multilaterale degli scambi, operare per la condivisione più diffusa possibile dei valori e dei principi fondanti della convivenza pacifica tra le nazioni.

Tale contributo va dato in primo luogo in Europa, della cui Unione siamo tra gli artefici principali. Oggi dobbiamo fare la nostra parte per completarne l’architettura istituzionale e migliorarne la governance. Non si tratta solo di dare un contributo politico o tecnico in una direzione o nell’altra; si tratta di accrescere la fiducia reciproca, lavorare insieme per un mondo veramente migliore. Un’Europa più forte e più unita, del cui progresso il nostro paese condivide la responsabilità, è la migliore assicurazione contro i grandi cambiamenti geopolitici in corso, la premessa ineludibile per far fronte con successo alle sfide globali che abbiamo di fronte. In ultima istanza è da questo che dipendono, insieme con l’impegno a fare al nostro interno ciò che si deve, la difesa del risparmio di cui qui oggi celebriamo la giornata, il suo impiego efficace nelle attività produttive, il ruolo cruciale che esso riveste per uno sviluppo sostenibile ed equo”.

 

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